Se oggi scriviamo «land grabbing», il concetto non dev’essere troppo spiegato: è patrimonio culturale comune che il riferimento sia all’accaparramento di terre, normalmente ad opera di multinazionali del Nord del mondo nei tanti Sud del mondo. L’idea di «water grabbing», invece, è ancora nuova e poco conosciuta, ed è per questo che il libro di Emanuele Bompan e Marirosa Iannelli è così necessario. Già il sottotitolo – Le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo – accende una luce: il fenomeno dell’accaparramento idrico è sempre collegato a forme di violenza e di violazione dei diritti umani fondamentali (com’è riconosciuto l’accesso all’acqua potabile dalle Nazioni Unite), perché quando un soggetto abusa di una risorsa scarsa, finisce per privarne altri. Ecco che da idea il water grabbing prende concretezza: di fronte a famiglie cacciate dai loro villaggi per fare spazio a dighe, alla privatizzazione delle fonti idriche, all’inquinamento dell’acqua per scopi industriali che portano beneficio a pochi e danneggiano gli ecosistemi (pensiamo ad esempio alle attività estrattive), al controllo delle fonti idriche da parte di forze militari per limitare lo sviluppo di popolazioni.

Il libro è un atlante, perché aiuta ad orientarsi tra questi fenomeni e lo fa a partire dalle storie raccolte da Bompan e Iannelli in giro per il mondo, nell’ambito del progetto della Ong COSPE dedicato al water grabbing, che oggi rende possibile consultare un portale (www.watergrabbing.net), leggere dei reportage dall’Africa, dall’Asia e dal Medio Oriente, www.watergrabbing.it, o guardare le foto scattate da Fausto Podavini, Gianluca Cecere e Thomas Cristofoletti, ed esposte nel 2017 Festival della Fotografia Etica di Lodi.

I due autori costruiscono e mettono ordine uno scenario articolato, affrontando uno dopo l’altro il rapporto tra acqua e cambiamenti climatici, acqua ed energia, acqua e privatizzazione, acqua e diritti umani, anche quello a servizi igienico-sanitari, acqua ed empowerment femminile. Lo fanno con esempi come quello delle comunità rurali dello Swaziland, da cui si cammina almeno mezz’ora a piedi per raggiungere la fonte più vicina di acqua potabile, in una terra resa arida dalle piantagioni di canna da zucchero (al servizio di The Coca-Cola Company). «L’acqua “nascosta” e “rubata” è il tema di queste pagine: la consapevolezza è il primo passo verso l’uso razionale dei beni naturali» scrive Luca Mercalli in un messaggio dedicato al libro ed ai suoi autori, che campeggia in quarta di copertina.
Una consapevolezza che aiuterebbe a capire, tra l’altro, che anche «quando parliamo di land grabbing, spesso siamo in realtà davanti a casi di water grabbing, di accaparramento della risorsa idrica da parte dei grandi gruppi privati e pubblici» come ha ricordato Jennifer Franco, ricercatrice del Transnational Institute, in un’intervento a Firenze, nell’ambito di un convegno sul diritto globale al cibo. «Penso all’Africa, con le sue grandi coltivazioni agricole destinati ai bio-carburanti, alle grandi miniere estrattive in Sud America, alle gigantesche dighe costruite un po’ in tutta l’Asia -ha aggiunto-. Tutti fenomeni di accaparramento che hanno anche, e soprattutto, una dimensione “water”. L’acqua è una risorsa mobile, non segue confini o divisioni tra Stati, è invisibile, spesso “nascosta” sottoterra: è proprio questa sua natura “liquida”, mobile, a rendere il water grabbing così difficilmente controllabile e così poco conosciuto». Ecco perché un libro come Water Grabbing serviva. Ora.