«Ho un debole quasi femminile per la porcellana antica: quando visito una grande casa chiedo di mostrarmi prima il gabinetto delle porcellane, poi la galleria dei quadri»: lo scrittore Charles Lamb si confessava incantato dalle «scenette azzurrine senza senso, con uomini e donne che navigano, liberi da ogni costrizione, in un mondo senza prospettiva, dipinti attorno ad una tazza di tè», in uno dei più belli fra i suoi Last Essays of Elia, pubblicati nel 1833, data che scuserà l’autore per l’aggettivo un po’ misogino usato in apertura.

Nella mappa delle eccentricità edilizie del Settecento – edifici dai nomi che ne esaltano la frivolezza, come Sans Soucis, Mon Bijou o Sans Pareil –, i padiglioni cinesi risultano il fenomeno forse più frequente, seguiti a una certa distanza dalle finte rovine, dagli eremitaggi e da aguzze costruzioni neogotiche. Talmente frequenti da non poterli neanche più considerare eccentrici in senso stretto, ma un prodotto conformista del lusso dell’epoca: non c’è quasi palazzo principesco tedesco o country house inglese del secolo dei Lumi che non abbia un pur minuscolo chiosco, un pergolato fittile, o almeno una, due stanze rivestite di carte e festonate di ninnoli orientali.

C’erano stati dei precedenti seicenteschi, istigati dai resoconti delle missioni gesuite e dalle illustrazioni del bellissimo libro di Johan Nieuhof sulla Cina del 1665, ma si era trattato di tentativi ibridi, come il Trianon de Porcelaine di Luigi XIV: il barocco non si addice ai tetti a pagoda, è troppo eroico, o troppo mistico. A Dresda Augusto il Forte aveva cercato di aggirare il problema ricoprendo gli interni del faraonico Japanische Palast (1715-’17) con migliaia di porcellane, sia orientali sia della locale manifattura di Meissen, ma l’edificio in sé era un grandioso blocco con qualche tetto incurvato.

Per fare un edificio «alla cinese» c’era bisogno di uno stile anticlassico e poco spirituale come il rococò, e poi di un’abbondanza di vasellame, sete dipinte, lacche e carte da parati che – con il senso del commercio che li contraddistingue – i cinesi fabbricavano in quantità, seguendo un gusto europeo inventato dalle richieste degli acquirenti d’oltremare. Ma c’era bisogno soprattutto di un nuovo senso del paesaggio, senza prospettiva come avrebbe detto decenni dopo Charles Lamb, in cui i personaggi si potessero muovere leggeri tra i fumi del tè e di sentenze confuciane mal tradotte e ancor peggio comprese.

La Sala gialla con pannelli in lacche cinesi

In una mattina del tardo luglio 1753, il piccolo principe ereditario di Svezia, futuro Gustavo III, vestito da mandarino, presentò alla madre le chiavi di uno di questi edifici, situato nel parco di Drottningholm, il castello reale vicino a Stoccolma tradizionalmente appannaggio delle regine svedesi. Era il dono del re Adolfo Federico alla moglie, Luisa Ulrica di Prussia: una piccola costruzione di legno fabbricata nell’arsenale di Stoccolma e portata di notte via mare fino al palazzo reale fuori città, omaggio alla consorte nel giorno del suo compleanno. Ma dopo una decina d’anni quella casetta diede segni di decadimento e se ne costruì un’altra, questa volta di mattoni. La casa cinese di Drottningholm, uno dei più eleganti esempi nel suo genere, ubbidisce ai principi fondamentali del gusto orientaleggiante: dai tetti in rame a pagoda pendono campanelle e sotto la loro falda ondeggiante spuntano draghi e teste di mandarini accompagnati da stucchi rococò in cui si mescolano volatili, piante, strumenti che alludono ai piaceri rurali della terra lontana e immaginata.

Fin qui niente di troppo eccentrico rispetto alle regole del momento: l’architetto, Carl Frederik Aldecranz, aveva imposto qualche stilema esotico a un corpo di fabbrica a ferro di cavallo, con un blocco centrale collegato da due corridoi curvi a due ampie stanze alle estremità. Il collega Jean Erik Rehn fu più sbrigliato nella sistemazione degli interni, contrapponendo cromie nette che sembrano tolte da lacche e smalti orientali. Al pian terreno ogni stanza ha un colore diverso, a volte deciso, altre declinato in gradazioni ricercate: basta aprire le due porte delle stanze adiacenti alla Sala gialla – una verde e una rossa – per visualizzare una fantasia cromatica esuberante. Il paesaggio al di là delle mura, invece, entra a far parte degli interni nei due grandi ambienti alle estremità opposte dell’edificio, le finestre dei quali aprono su vedute a cannocchiale di viali alberati che si perdono all’orizzonte.

Lacche, stoffe e porcellane sono disposte con generosità ma sempre con un equilibrio misurato. Nel parco che circonda il padiglione crebbero altri edifici isolati, più piccoli ma altrettanto giocosi. Una sala da biliardo, una per pranzare, dotata di un congegno che fa spuntare dal pavimento il tavolo apparecchiato, una voliera, un tornio per il passatempo del consorte Adolfo Federico. Poco distante venne addirittura eretto un intero villaggio dal nome evocativo di Canton, destinato alla produzione della seta: allo scopo furono importati bachi e gelsi che caddero rapidamente vittime dei crudeli inverni scandinavi.

Mentre il sovrano torniva, Luisa Ulrica ricamava i pannelli per la Sala color rosa secca del suo padiglione e complottava contro il parlamento nazionale istigando un colpo di stato dopo l’altro, ognuno dei quali puntualmente abortito. Fu sempre una feroce sostenitrice del ripristino della monarchia assoluta a scapito di quella parlamentare, adottata in Svezia dal secondo decennio del secolo. A istigarla forse era il fratello, Federico il Grande, re di Prussia, anche lui proprietario di un padiglione cinese a Potsdam, più piccolo di quello svedese ma più teatrale, circondato di figure orientali a tutto tondo interamente dorate che si aggirano sul suo perimetro apparentemente senza scopo.

La scelta della sorella maggiore di Federico e di Ulrica fu più estrosa: la Margravia di Bayreuth, Guglielmina, a differenza dei fratelli non ebbe mai grandi disponibilità economiche ma di ciò fece virtù. Nell’Heremitage, un vecchio castello alla periferia della sua capitale, si ricavò due stanzette (la cineseria non si addice a saloni o gallerie), una delle quali è rivestita di pannelli giapponesi completati in maniera impeccabile da artigiani locali e, si dice, da Guglielmina stessa. L’altro, una sorta di prodigio surrealista, era il suo minuscolo studio privato con le pareti e il soffitto disseminati di frammenti asimmetrici di specchio, dipinti con soggetti orientali. In quel disordinato susseguirsi di riflessi, la Margravia redasse parte delle sue celebri memorie, uno dei più brillanti testi autobiografici del Settecento in cui dimostra tutta l’intelligenza e lo spirito di cui era dotata.

La sorella sul trono svedese, rimasta vedova, vendette il Castello di Drottningholm e tutto il suo parco, cineserie incluse, allo Stato pur mantenendone l’uso (è tutt’ora utilizzato dalla casa reale regnante) ma non smise di complottare e di fare la vita difficile al figlio Gustavo a cui il colpo di stato invece riuscì.