Nonostante i proclami dell’inquilino del Viminale siano smentiti dalle cifre, questi stessi numeri – sempre in difetto – non aiutano a concepire la tragedia umanitaria di cui siamo testimoni. Anzi ce la allontanano, in un processo di raffreddamento della realtà, senza il quale ci troveremmo (quasi) tutti nel Mediterraneo, almeno, a raccogliere i corpi delle migliaia di migranti morti.
Un’Ecatombe inconcepibile come L’abisso che Davide Enia sbatte in faccia allo spettatore, ricoprendolo di particolari agghiaccianti, raccolti nel corso delle sue ripetute permanenze a Lampedusa. Attore-autore-regista palermitano, Enia ha tratto dal suo romanzo Appunti per un naufragio, questo potente spettacolo (in scena al Teatro India fino al 28 ottobre), costruito alla maniera di un combattimento senza remore di sconvolgere la platea fino al pianto, né regole se non quelle del teatro.

Per 80 minuti, in un flusso di parole incessante e solitario, ma in stretto dialogo con Giulio Barocchieri, autore-esecutore delle musiche, Enia innerva la tragedia collettiva con una tragedia privata, il cancro dello zio, entrando nell’intimità di ognuno con destrezza chirurgica, per scoprirne i nervi doloranti e le ferite più profonde pronte a risanguinare.
Nella scena vuota, Davide Enia si poggia sulla tipica sedia del narratore per riconsegnare non le fantasie di Melville, ma l’epopea quotidiana del sommozzatore della Guardia Costiera, un gigante abituato a lottare contro il mare in tempesta che si prodiga in salvataggi impossibili con la forza del suo corpo allenato, e la disperazione dei pescatori nel tirare in barca tra polpi e spigole i cadaveri di uomini, bambini, donne. Per queste ultime l’inferno del viaggio avviene nel girone più atroce e, se sopravvivono, le pance gravide sono il risultato meno orrendo dello scempio vissuto.

Continua in un crescendo di dolore questo canto dell’Abisso, scivolando tra le memorie degli amici di Lampedusa e i dialoghi col padre, compagno di viaggio sull’isola-frontiera, in una lingua ritmata dalla musica e dallo scivolamento nel dialetto palermitano. E poi si alza Enia e raggiunge il proscenio quando il ritmo incalzante raggiunge l’acme con gli stilemi del cunto, erede-rinnovatore di una tradizione che Mimmo Cuticchio con la sua arte di puparo ha propagato ovunque. Un piccolo capolavoro nato dall’indagine sul campo che lascia attoniti e fa crescere la rabbia contro chi vuole nascondere questa insopportabile realtà.