Non si può dire che sia la prima volta della destra al Salone. Addirittura, tre anni or sono, le polemiche erano sorte intorno alla presenza, poi annullata, di uno stand di Altaforte, la casa editrice legata a CasaPound, tra quelli ospitati al Lingotto. E, nei trent’anni di berlusconismo reale che tra alterne vicende elettorali ha comunque contribuito a plasmare l’immagine del Paese, quello di Torino è un appuntamento che ha sempre segnalato le mire dei governanti di turno su quello che con qualche approssimazione si potrebbe definire come «lo spazio di senso della cultura».

QUEST’ANNO, le avvisaglie della tempesta si erano coagulate intorno alla nomina della nuova direzione del Salone, allo scadere del mandato di Nicola Lagioia, per altro pesantemente attaccato in passato specie da parte degli esponenti della Lega. Sulla stampa, era circolato, non si sa bene con quanta ufficialità, vera o presunta, un totonomi che includeva i grandi classici dell’intellettualità destrorsa del momento: Pietrangelo Buttafuoco, Marcello Veneziani, Giordano Bruno Guerri. Come è noto, non se ne è però fortunatamente fatto niente, dopo che l’allarme sull’indipendenza del Salone ha riempito, e a ragione, le cronache nazionali e torinesi.

Non c’è stato il colpo di mano, ma forse neppure la «normalizzazione» che altri paventavano. Al punto che domani Nicola Lagioia e Annalena Benini, rispettivamente direttore del Salone di quest’anno e direttrice del Salone dall’anno prossimo, discuteranno del «libro come luogo d’elezione della memoria, come rifugio o trasfigurazione di sé e del mondo, fino al libro come oggetto d’affezione in grado di trasformare l’anonimato di una casa».

Ovviamente, all’indomani della presa manu militari della Rai, un brivido quanto alle intenzioni complessive delle destre di governo riguardo al comparto informativo-culturale è d’obbligo più che lecito. Ma, anche in questo caso, a ventun’anni dall’«editto bulgaro» di Berlusconi che annunciava la cacciata dai palinsesti di Viale Mazzini di Enzo Biagi, Michele Santoro e Daniele Luttazzi, varrà la pena sottolineare come l’occupazione del territorio sia pratica comune delle «destre plurali», e non solo di esse, una volta giunte al governo. Magari, allora come oggi, il problema riguarda i criteri con cui vengono scelti i nominati e le esperienze nel settore che possono o meno vantare.

COSA C’È PERCIÒ di speciale in questa vigilia del Salone, quale lo scenario inedito cui si può guardare se non con cautela con una certa interessata e perplessa curiosità? Nell’anno primo dell’era Meloni ad annunciare il clima è la volontà, più volte espressa e affermata da figure di primo piano dell’esecutivo, a cominciare dal ministro «competente» Gennaro Sangiuliano, di costruire «un’egemonia culturale della destra». Una prospettiva ribadita recentemente dagli «Stati generali della cultura nazionale», svoltisi a Roma su iniziativa di Nazione futura, braccio culturale di Fratelli d’Italia e che vede oggi alcuni suoi esponenti lavorare a stretto contatto con Sangiuliano stesso.

Proprio Francesco Giubilei, presidente di Nazione futura e consigliere del ministro della cultura interverrà al Salone accanto ad Alain de Benoist per presentare La scomparsa dell’identità, un volume del capofila della nouvelle droite di cui è anche l’editore (domenica 21, ore 12, Arena Piemonte). «Le grandi narrazioni collettive sono scomparse, le frontiere e i limiti si sono dissolti e i legami sociali sono ogni giorno più fragili. Così, privi di una bussola, non sappiamo più chi siamo», si legge nel programma della kermesse per annunciare l’incontro.

Al di là del fatto che de Benoist non ha mai nascosto le proprie simpatie per Putin e che il terzo partecipante al dibattito, l’assessore regionale alle politiche sociali del Piemonte Maurizio Marrone (FdI) è noto per il proprio sostegno ai filorussi del Donbass – posizioni perlomeno bizzarre a fronte dell’atlantismo di ferro degli eredi della fiamma -, resta la considerazione che è proprio con la figura del filosofo francese che la destra intende far sentire la propria presenza al Lingotto.

Davvero l’egemonia culturale e l’indicazione della possibile Weltanschauung meloniana si affidano a uno degli autori che ha incarnato nell’ultimo mezzo secolo il ritorno delle tesi più violentemente anti-egualitarie del panorama politico e culturale? Una critica radicale della democrazia che ha assunto di volta in volta l’aspetto della chiusura comunitaria, del differenzialismo, dell’elogio di tutti i populismi, della denuncia del tramonto delle identità e delle appartenenze. Il tentativo di ricostruire, dopo e contro il ’68 e sulle macerie delle culture di destra che avevano contribuito alle tragedie della prima metà del Novecento, un lessico d’attacco che rendesse nuovamente possibile discriminare e dividere, separare e selezionare gli esseri umani. Se de Benoist è esibito come un campione delle idee che si vorrebbero rendere egemoni, è evidente come il problema con la destra è molto più profondo di quanto si sarebbe portati a credere. E, in questo caso, di una minaccia che arriva dal futuro, più che dal passato, si tratta.