La fuga dalla realtà è decisamente un sollievo illusorio quando ci sono scenari globali confusi, come quello attuale, che mentre tenta di riprendersi dallo schiaffo pandemico, si trova a fronteggiare un complesso e sfaccettato discorso sul clima, un rinvigorirsi di antieuropeismo a Est Europa, una riproposizione stucchevole anti-migratoria condotta con muri, respingimenti, violenze alle porte delle nostre frontiere europee, ma anche una politica della morte, in America Latina e in particolare in Brasile, sfruttando il contagio fuori controllo. In tutto questo, pur con l’indebolimento numerico dei populismi rispetto al 2018-2019, messi in crisi proprio dall’emergenza sanitaria, vien fuori, ancora e ancora, un rigurgito di fascismi, che non ha lasciato indenne neanche l’Italia . La fuga dalla realtà (ora da una realtà globale molto sgretolata, fatta di giovani marginalizzati dalle politiche e da famiglie, a loro volta, impoverite da questi due anni, in attesa della ripresa, forse, di domani) appare – a un’analisi ingenua – una sorta di placebo ottenuto con l’utopia.

A tal proposito, in piena ondata populistica, il filosofo Bronislaw Baczko, fu chiamato, qualche anno fa, in una lezione universitaria romana a commentare un grafico del The Guardian sulla crescita di movimenti di ultra destra; disse, con chiarezza di linguaggio, a un uditorio anche poco esperto di filosofia e ben più interessato alla disciplina pedagogica: “Attenzione a non confondere la risposta pedagogica utopistica progettuale con i residui dei vecchi totalitarismi. Sarebbe una banale riduzione della prima e un addolcimento ingiustificabile dei secondi. Ho visto Varsavia inghiottire, nel ghetto, la mia famiglia, ho visto il nazismo affacciarsi in Polonia, arrivando feroce e violento dalla Germania; ho visto e condiviso, in più momenti, lo stalinismo, ma oggi voglio evidenziare, a voi giovani, che i totalitarismi non hanno una visione autenticamente utopica di ricerca di un posto migliore, non vedono un futuro con l’ausilio della scienza e del progresso. Si occupano del tempo presente accennando a un futuro che – come già sanno – non si realizzerà e utilizzano, quasi sempre, la criminalizzazione di qualcuno per decentrare l’insoddisfazione, che resta tale, del popolo.

Era così ai primi del Novecento e si sente la stessa aria, in alcuni ambienti, oggi, in Spagna, in Italia, in Ungheria, in Polonia, ma anche in Austria e in Francia. Da questo discorso non si può esulare neanche il mondo d’ Oltreoceano. Il decentramento dei problemi, ancora oggi, viene attuato con la soluzione semplicistica di matrice fascista: se la tua vita è insoddisfacente, misera, senza lavoro, vieni in piazza e insulta e utilizza la risposta eterna e immutabile della violenza. Trova il capro espiatorio e agisci. Questo procedimento, pur avendo azione, esclude completamente il pensiero progettuale, che è l’essenza dell’utopia”.

In Educazione per la Democrazia, per esempio, Baczko metteva, peraltro, in evidenza un elemento essenziale: il legame tra la Rivoluzione e la sua vocazione pedagogica, realizzata attraverso istruzione ed educazione, strumenti che devono rendere di fatto reale la democrazia, quella democrazia evocata spesso, strettamente legata a ciò che si affronta, cioè la disuguaglianza tra gli uomini, e che si impone come emblema della rivoluzione con un nome che diviene la parola d’ordine: “Eguaglianza”. Questa idea di “rivoluzione”, che faceva parte anche della giovinezza del filosofo di Varsavia, non ha apparentamenti con i fascismi ottusi. Commentando queste frasi, la filosofa ungherese Heller sentì l’esigenza di precisare, in quel contesto, che ogni espressione di totalitarismo, fascismo e nazismo compresi, fanno percepire, pur sbagliando, una chiamata utopica alla risoluzione delle singole esistenze, all’interno di un ben preciso linguaggio.

Ovviamente, secondo Heller, questo linguaggio “non ha nulla di utopico, perché si rinchiude in una cerchia di persone, escludendo tutto ciò che è fuori da quella cerchia, come se l’utopia sia autorizzata ad alcuni prescelti. La rottura, anche violenta, delle rivoluzioni non ha legami coi fascismi, perché le rivoluzioni pensano, e hanno pensato, nella storia, al futuro per tutti. Tuttavia bisogna esser molto più precisi in queste cose, perché il nazionalismo etnico non è il populismo che è stato per esempio in Venezuela. La Storia, pur ripetendosi, non ricalca mai esattamente se stessa, per cui i totalitarismi odierni, se così possiamo definirli, non hanno veramente la stessa radice del fascismo o del nazismo del Novecento. Loro, nel loro interno, si percepiscono infatti democratici, con un progetto (falsamente pedagogico), che ha l’obiettivo di ripulire le ‘patrie’ dal pericolo dei migranti. I populismi gridano soprattutto, ma i nazionalismi etnici cercano di mettere in atto quello per cui son stati votati. Da noi questo è evidentissimo con Orban, il quale sapeva che l’unico modo per mantenere il potere era averlo attuando la progettualità criminale della sua campagna elettorale. In quella finta progettualità non c’è assolutamente né etica né utopia pedagogica. Nasceva da qui la mia opposizione a ogni tipo di totalitarismo, così come nasce alle nuove infezioni post – contemporanee”.