Le vittime della Shoah, gli ebrei, i Rom, gli omosessuali, gli psicolabili, gli affetti da handicap, non furono martiri. Nella stragrande maggioranza dei casi non intendevano testimoniare con il sacrificio della vita la loro fede in una religione o in una causa. Furono vittime, travolte e divorate da una tempesta di ferocia, odio e spietatezza che non potevano prevedere e tanto meno capire.

Liliana Segre, sopravvissuta all’assassinio del padre e dei nonni, alla deportazione ad Auschwitz-Birkenau, alla tremenda «marcia della morte» del gennaio 1945, era una di loro. Ha raccontato in diverse occasioni di aver «scoperto» le sue origini ebraiche solo dopo l’avvio della campagna razziale, nel 1938.

Aveva 8 anni, era stata battezzata prima ancora che le leggi razziali entrassero in vigore. Si trovò all’improvviso alle prese non solo con la violenza straziante della discriminazione, destinata poi a diventare persecuzione aperta, ma anche con quella zona grigia che ha tanto spesso denunciato nei suoi discorsi: quella di chi non aderiva ma neppure sabotava, di chi non era del tutto complice ma neppure riteneva necessario opporsi.

Come la Svizzera, che avrebbe chiuso i confini di fronte a lei e a suo padre quando, il 10 dicembre 1943 cercarono inutilmente rifugio a Lugano.

Forse nella proposta di una commissione parlamentare contro l’odio in rete avanzata con successo dalla senatrice a vita Segre più che il desiderio di censurare e punire c’è quello di svegliare e risvegliare, di combattere una passività che è tanto pericolosa quanto le forme attive di razzismo.

«L’atmosfera dovuta all’ignoranza e all’indifferenza che è stata la regina del mondo di allora c’è purtroppo anche oggi», dice.

Quella commissione, discutibile se immaginata come motore di sanzioni contro la libera espressione di opinioni pur se aberranti, sarebbe destinata a svolgere più meritorie e soprattutto più utili funzioni se immaginata come la ricerca di un antidoto a quei veleni, senza i quali il razzismo esisterebbe comunque ma non prospererebbe.

Alcuni dei sopravvissuti si assunsero subito la pesantissima responsabilità di testimoniare l’orrore che avevano conosciuto, nella speranza di impedire così che potesse ripetersi e forse di saldare un debito con i tantissimi che non ce l’avevano fatta. Accettarono di rimanere ostaggi della loro stessa tragedia fino a esserne in molti casi uccisi, come Primo Levi e Jean Améry.

Molti altri, come Alberto Sed scomparso pochi mesi fa o la stessa Liliana Segre, combatterono una guerra non meno lunga e non meno dolorosa contro la prigionia di quel passato, per cercare di recuperare una forse impossibile normalità, per riuscire a convivere con il trauma di quell’orrore senza precedenti e a superarlo senza dimenticarlo.

Solo dopo decenni hanno rotto il silenzio per iniziare a raccontare.

«Imparai ben presto a tenere per me i miei ricordi tragici e la mia profonda tristezza. Nessuno mi capiva. Ero io che dovevo adeguarmi a un mondo che voleva dimenticare gli eventi dolorosi appena passati. Ho iniziato prestissimo a tacere. Mi ci sono voluti 45 anni per riuscire ad andare a parlare davanti agli studenti, senza mai nominare odio e vendetta, e a fare il mio dovere di testimone», racconta Liliana Segre.

In un’epoca segnata dal rancore, Liliana Segre, sopravvissuta e senatrice a vita, è diventata così doppiamente testimone.

Delle atrocità vissute quando era appena quattordicenne ma anche della capacità di battere il lascito tremendo di quell’esperienza, di vincere gli spettri che inevitabilmente aveva depositato nell’anima delle vittime, di riuscire lo stesso a vivere sino a ritrovarsi capace, a 89 anni, di affermare con drammatica serenità: «Io non perdono e non dimentico ma non odio».

Nella superficialità del discorso politico e culturale contemporaneo parole del genere rischiano di essere confuse con uno dei tanti slogan «contro l’odio». Pronunciate da chi aveva tutti i motivi di odiare e quell’odio ha saputo superare in una battaglia durata decenni è la testimonianza di una vittoria contro la morte, e contro chi della morte aveva fatto un sinistro feticcio.

Quella testimonianza è il dono più prezioso di cui essere grati a Liliana Segre.

Ricerca: gli antisemiti sono più di un miliardo

Più di un miliardo di persone nel mondo mostra sentimenti antisemiti. I dati dell’ultima ricerca dell’Anti Defamation League riguardante 18 paesi europei e non solo pubblicata nel novembre 2019 rivelano quanto siano diffusi l’antisemitismo e più in generale la diffidenza verso gli ebrei.

In Italia, la ricerca stima quasi 9 milioni di antisemiti, cioè il 18% della popolazione adulta (nel 2015 era ben il 29%).

In Europa la media è il 24% della popolazione, cioè circa 79 milioni di persone. Il paese meno antisemita tra quelli esaminati è la Svezia (4%).

Le credenze più diffuse sono che gli ebrei sono più leali a Israele che al proprio paese (lo pensa il 41% degli intervistati nel mondo) e che gli ebrei sono oltre 700 milioni (in realtà sono meno di 14 milioni).

L’indagine di Amnesty sull’hate speech in rete alle ultime europee

Link qui. La sintesi in video: