Lo chiamo e, dopo sei volte che dice: «Utente momentaneamente non disponibile», lascio perdere perché c’è un limite a tutto. Quando l’amico mi ritelefona esclama: «Sono disperato. Mi è caduto il cellulare nel cesso. E ho pure tirato lo sciacquone. Ho perso tutto. Ho recuperato il tuo numero da mia moglie». È proprio il caso di dire, letteralmente, che si teneva quel coso attaccato là dove ci si siede per i propri bisogni. «Ma te lo ha risucchiato?», chiedo io pensando allo sfracello dell’idraulico che deve smontarti il wc in pieno Luglio. «No, no – risponde lui – era troppo grosso. Ha galleggiato, però è morto e io adesso sono in un mare di guai perché lì ci tenevo tutto, rubrica, applicazioni della banca, spid, file del medico, dell’ospedale, del lavoro, password, foto». «Ma non li hai salvati su un cloud?». «Credevo di averlo fatto, e invece nella nuvola non c’è nulla, tutto sparito, e irrecuperabile». Mi immedesimo e mi sento svenire per lui, perché ormai siamo così abituati a farci assistere da quel bagaglio lì a cui abbiamo affidato un pezzo della nostra vita, che non ricordi più a memoria nemmeno il numero di tua madre o tuo figlio, tanto sono in rubrica, ti dici, ed è lì che ti accorgi che non sei più tu a possedere un oggetto, ma lui che possiede te.

Ma c’è soprattutto una cosa che me lo fa detestare, benché ormai dilagante, o forse proprio per quello. Il telefono ha sostituito i giornali, perché il cartaceo è scomodo, dicono, ma soprattutto perché le edicole chiudono, cadono come birilli.

È UN ESSERE prezioso e malefico, il telefonino. E anche se lo volessi usare solo per fare qualche chiamata, non ti è concesso, perché senza quello non puoi più fare operazioni bancarie o pagamenti online, accedere a un sito istituzionale tramite il complicatissimo spid, perché ognuna di queste funzioni funziona solo se di là possono mandarti un sms. In sostanza, nel mondo contemporaneo, se non hai un cellulare non esisti, cosa che potrebbe anche essere un vantaggio, se decidi di vivere come un eremita. È diventato così intrinseco a noi e protesi personale e sensibile, il telefonino, che per accedervi solo tu ora puoi scegliere fra tre opzioni di sblocco: segno grafico, riconoscimento facciale, impronta digitale. Confesso che le ultime due mi inquietano assai. Quando ho dovuto cambiare il mio aggeggio telefonante, alcuni mesi fa, mio figlio ha insistito perché usassi come sblocco l’impronta di un dito. Mi sono lasciata convincere, a malincuore, e ho scelto il pollice. All’inizio funzionava dopo due tentativi, poi è bastato che pelassi tre patate, qualche sedano e quattro carote (dovevo fare un minestrone), e il telefono non si apriva più. «Impronta non riconosciuta – diceva – ritenta». Io riprovavo, ma nulla. Dopo il decimo fallimento, ho tolto l’impronta, che così intelligente si vede che non è, perché non tiene conto dei tagli e taglietti che ti fai quando affetti, che so, un’arancia. Mi chiedo come facciano con le impronte i cuochi o i muratori, per dire. Ma c’è soprattutto una cosa che me lo fa detestare, benché ormai dilagante, o forse proprio per quello. Il telefono ha sostituito i giornali, perché il cartaceo è scomodo, dicono, ma soprattutto perché le edicole chiudono, cadono come birilli, e allora tu, se non hai più Mario o Giovanni sotto casa, diventi uno dei tanti asociali che legge articoli dentro quel piccolo schermo, che cambia le percezioni, perché la gerarchia delle notizie non è più dentro il respiro grafico di una pagina larga, ma infilata in un nastro che scorre, più su e più giù, che ti manda suggerimenti decisi da un algoritmo, e questa cosa cambierà il modo in cui la gente vede il mondo, sempre che riesca ancora a vederlo. E insomma, devo dirlo caro amico disperato, meno male che ogni tanto quel robo lì cade nel cesso, e torniamo nella dimensione sensibile.

mariangela.mianiti@gmail.com