Cultura

La vita reale è in bianco e nero

La vita reale è in bianco e neroTom Sandberg, «Untitled», 2007

Fotografia «Around Myself», la mostra del norvegese Tom Sandberg a Modena, a cura di Sune Nordgren e Filippo Maggia

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 27 ottobre 2015

Il mare, il silenzio, la sospensione: tre temi che tornano nelle fotografie di Tom Sandberg (Narvik, contea di Nordland 1953-Oslo 2014), esposte al Foro Boario di Modena in occasione della prima mostra italiana dedicata al fotografo norvegese. Curata da Sune Nordgren e Filippo Maggia, Tom Sandberg. Around Myself (fino al 10 gennaio 2016) offre una selezione di venti scatti datati 1991-2010, incluso il Portfolio con le sei stampe al palladio esposte al MoMa PS1 di New York nel 2007 ed entrate a far parte della collezione della Fondazione Fotografia Modena. La mostra è «incastonata» all’interno del percorso Fotografia Contemporanea dell’Europa nord occidentale. Capitolo I (diciannove autori di varie generazioni, dagli inglesi Jonny Briggs e Melissa Moore alla finlandese Ilkka Halso, al nordirlandese Willie Doherty), parte del programma del Festivalfotografia 2015.

C’è anche il ritmo delle nuvole – negli scatti di Sandberg – uno squarcio di luce, la sagoma dell’aereo tra cielo e terra, la curva di un tunnel. Quanto ai ritratti, nessuno mostra il volto. «Sospensione in termine di tensione – ha precisato Sune Nordgren che conosceva il fotografo fin dagli anni 70 – Quanto all’acqua, sì certo, c’è tanta acqua, ma questa è la Scandinavia». Anche il silenzio appartiene al mondo interiore del fotografo, riservato e solitario. Il bianco e nero è il linguaggio adottato: era solito stampare da sé le fotografie in camera oscura, magari ascoltando musica così ad alto volume che non si riusciva a parlare. Per le stampe molto grandi (oltre i tre metri), invece, si rivolgeva ai laboratori di Parigi e Oslo. Quanto ai soggetti non hanno nulla di straordinario: momenti, situazioni, oggetti della quotidianità che si cristallizzano nella dimensione temporale, investiti di un’impercettibile ambiguità che pure appartiene al codice linguistico del bianco e nero. «Fotografava un sacchetto di carta marrone vuoto che non conteneva nulla, di quelli che butti via qualche secondo dopo aver mangiato il tuo sandwich, e questo diventava improvvisamente un buco nero. Qualcosa di molto misterioso che poteva contenere una bomba o magari un biscotto – ha spiegato il curatore – Lui non ha mai pensato in termini drammatici: nei suoi scatti non c’è nulla di sessuale o politico, non c’è la morte o il sangue, solo la vita ordinaria che lo circondava».

In mostra, una delle immagini che colpisce di più, inevitabilmente associata alla foto del bambino siriano senza vita sulla spiaggia di Bodrum, è Untitled (1996), il ritratto della figlia Marie addormentata a faccia in giù sotto sulla sabbia lambita dal mare, sotto il sole del Nord. «È lei anche la bambina con i codini fotografata di spalle. Trovo che sia affascinante cercare di capire quale potesse essere la sua idea nel fotografare sua figlia in quel modo. Normalmente li riprendiamo quando giocano o a Natale, ma lui ha ritratto Marie così, con una prospettiva in cui la testa della bambina è così grande che evoca qualcosa di molto fragile».

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Nordgren ha raccontato poi che Sandberg «non fece mai realmente parte della società. Né della sua famiglia, con cui ebbe un rapporto disfunzionale. Si sposò due volte ed ebbe due figli con donne diverse, ma terminò entrambe le relazioni velocemente e per la maggior parte della sua vita visse da solo. Eppure non era un outsider psicologicamente ai margini, questo no. Né una persona triste. Era un ragazzo felice, anche se non propriamente allegro. Fumava, beveva e ascoltava la musica sperimentale e black punk rock. A un certo punto smise di bere, si accorse di essere a un passo dall’alcolismo. Beveva soltanto espresso e coca cola. E stava sempre un passo indietro rispetto alla società, la osservava piuttosto che prenderne parte. La fotografia era tutta la sua vita. Registrava, documentava la vita reale. Da quando era un ragazzino fino a quando è morto per un tumore, nel 2014, non ha fatto altro che fotografare. Immortalò John Cage, Christo, Gilbert & George, Harald Sæverud e tanti altri, tra cui i designer Alberto Alessi, Bruno Danese, Ernesto Gismondi tra i protagonisti del libro Design in Italia. Dietro le quinte dell’industria (2008) di Stefano Casciani. Aveva sempre con sé la macchina fotografica 35 mm – non ha mai usato né Hasselblad, né banco ottico – che lo costringeva ad avvicinarsi moltissimo al soggetto».

Ora l’impegno più grande è la creazione della fondazione che porterà il suo nome, tutelando il suo lavoro che, oltre a fotografie e negativi, include un gran numero di provini, appunti e l’intera biblioteca. Negli ultimi anni l’interesse per la sua fotografia ha oltrepassato l’oceano, entrando nell’olimpo anche in patria, dopo l’assegnazione del premio Anders Jahre Culture Prize 2010 e facendo lievitare le quotazioni delle sue fotografie.

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