Il romanzo d’esordio di Valentina Morelli Un avanzo di troppi risvegli (pp. 224, euro 16) per CasaSirio Editore è costruito a partire dall’alternanza di due voci che all’apparenza non hanno mai comunicato fra loro. La prima è quella di un uomo appena uscito di prigione: ne porta i segni, non solo nei vestititi vecchi e che odorano di canfora, nelle scarpe distrutte, ma anche perché non sa più avere a che fare con la libertà, con gli altri. Poi, c’è la storia del giovane Saro, che vive a Catania e si guadagna ogni giorno con le sue capacità e la sua fatica la possibilità di continuare a studiare: suo padre vorrebbe che lui lavorasse nella macelleria di famiglia come fa l’altro figlio. Gli permette di andare a scuola solo a patto che Saro non prenda mai insufficienze.

L’EX DETENUTO non ha nome, almeno fino alla conclusione del romanzo nella quale, in modo efficace e piuttosto semplice, viene svelata la sua identità. Le pagine dedicate al suo pellegrinaggio – deve attraversare la penisola e arrivare a Catania – riescono a rendere l’atmosfera di angoscia profonda e di alienazione che connotano l’esistenza di quest’«uomo nero». Morelli sa far scaturire l’inquietudine che il personaggio suscita nelle persone che incontra: quella di un contadino che gli chiede di aiutarlo a spalare il letame e lo porta a casa sua per dargli un pasto e un letto in cui riposare prima del lavoro. Di primo acchito si fida di lui e ha bisogno di una mano, adesso che suo figlio ha deciso di cambiare vita e lasciare la campagna. Poi c’è qualcosa nel comportamento del nuovo operaio: il rifiuto del cibo, l’ossessione per il bucato, che lo spingono a mandarlo via.

Grazie all’incontro casuale con «il Profeta», che è stato suo compagno di carcere, diventa più chiaro che il bisogno di lavarsi costantemente e di lavare anche i panni è un retaggio che deriva dall’esperienza di reclusione. Questo incontro costituisce uno dei momenti più interessanti del romanzo: «il carcere m’ha fottuto il naso, gli odori forti mi fanno venire la nausea, il mal di testa, non sopporto più niente ho trovato al supermercato un detersivo che non sa di niente, ma di niente proprio, mi sa che lo usiamo soltanto noi in tutto il quartiere». Si tratta di uno dei rari momenti in cui la realtà prende corpo nel testo, che invece racconta per lo più di intenzioni, pensieri e fantasie dei suoi personaggi protagonisti.

C’È IL COLPO DI FULMINE di Saro per una certa Agata che ha visto solo una volta e che pensa diventerà la donna della sua vita; e ci sono le presenze dei coadiuvanti: il cugino Vito, la madre che fa la parmigiana di melanzane per convincere suo marito a fare studiare il figlio, il nonno che alleva piccioni…L’unica, però, ad avere una vera fisionomia tra i personaggi secondari è una certa Marylin, il cui vero nome è Benedetta, che l’uomo senza nome incontra in un bar durante il suo viaggio verso la Sicilia. Fa la cameriera e la prostituta.
La chiusa ad arte che permette ai due rivi del testo di incontrarsi, sfociando in una conclusione chiara ma forse repentina, assume inevitabilmente il sapore di un monito, di una sorta di morale, tanto spaventosa quanto realistica. Nel suo romanzo, Valentina Morelli pare voler raccontare a lettrici e lettori di come anche nelle storie più minute, negli anfratti trascurati della vita quotidiana della «gente», possa incombere e poi esplodere la tragedia, intesa come evento imprevedibile e scacco matto del fato. Quando la moira si accanisce, senza che si possa davvero capire perché, la sua ferocia cancella ogni differenza tra Edipo e un macellaio catanese. L’accenno alla realtà mafiosa nella città siciliana resta embrionale.