Torna a venticinque anni dal Leone d’oro per il suo film d’esordio Prima della pioggia il regista macedone Milcho Manchevski con Vrba (Salice) a riportarci la sua magica visone del passato i cui frammenti restano impigliati nel presente. In concorso alla Festa di Roma, Salice è un film sull’amore e la malinconia, su desiderio e compassione, aggiunge come elemento più adatto all’età adulta (all’epoca del suo esordio il regista era poco più che trentenne) quello della procreazione con le sue misteriose implicazioni. Ritroviamo quella sua particolare mitologia della visione dopo alcuni suoi film a grande budget realizzati negli Usa piuttosto deludenti (come Dust), uno stato di grazia da attribuire al suo ritorno in Macedonia, dopo anni di ostracismo («il governo precedente mi aveva messo nella lista nera e non potevo girare in Macedonia», dice).

IL MASSO in bilico sulla montagna dalla forma sferica, oggetto di devozione con cui si apre il film è uno di quegli elementi tipici della sua regia, occhio esperto di fotografia ma ancora più di esaltazione della sua terra, come quando faceva intuire i secoli negli occhi dei monaci ortodossi in Prima della pioggia. Il film, composto da tre episodi, inizia nel Medio Evo dove due giovani contadini di bellezza cristallina compiono sortilegi con fili di lana colorati (come è in uso ancora oggi) intorno a quel masso che, si dice, porterà la desiderata fertilità. Ma quando né tre chicchi di grandine, né sporcarsi di fango bastano a concepire, entra in scena la fattucchiera. E forse proprio dall’aver trasgredito alle sue indicazioni proviene quella lunga catena di guai che ancora avvolge la discendenza umana.

GLI ALTRI due episodi ci riportano ai giorni nostri con la tipica prosaicità del quotidiano, ma senza privare il film di magia: l’imprevedibile è ancora la principale chiave del racconto, insieme a un certa ironia nei confronti degli atteggiamenti superstiziosi dell’umanità, spettatore compreso, alla ricerca di collegamenti che chiudano il cerchio («si tratta di nostre proiezioni per dare un senso al caos»). Una falsa narrativa circolare, un’ironia sempre riscaldata dalla compassione nei confronti degli atteggiamenti distruttivi di qualunque epoca. Per terminare ancora con lo stupore nei confronti di quello che c’è di imponderabile nella natura e negli esseri umani, in particolare i bambini, come astronavi venute dallo spazio.

UN SENSO di allarme attraversa il film, ma senza farci precipitare in ambiti metafisici: tutto è sguardo, oggetti, paesaggi e personaggi, una concreta costruzione di cinema, anche quando si sfiora la fiaba, il rito. Sia nelle distese di montagne a perdita d’occhio che dentro un taxi di Skopje resta il dubbio dell’incantesimo. «Questo è uno dei punti chiave del film, che gli esseri umani sono sempre gli stessi a prescindere da dove vivono e dal tempo in cui hanno vissuto. L’obiettivo era affrontare i grandi dilemmi umani dal punto di vista delle persone, in che modo sono vissuti gioia, dolore, speranza, delusione». E quel salice del titolo che passa da un episodio all’altro? «Non è neanche il mio albero preferito, ma era adatto alla storia, un albero che si piega ma non si spezza, è piangente, adatto a una storia triste. Quando si fa un film si gioca, si cercano collegamenti».