Partiamo da una questione che riguarda il senso stesso di questo numero, e cioè se la teoria ha ancora un suo spazio, un suo ruolo, una propria ragion d’essere adesso che l’oggetto cinema si è molto trasformato, frastagliato, moltiplicato ma anche disperso; e il discorso teorico sembra aver smarrito ogni koinè, ogni lingua comune.

Credo che la teoria abbia ancora un grande ruolo, ma le condizioni di contesto oggi siano profondamente cambiate. La teoria nasce in un momento in cui il cinema si istituzionalizza; il suo obiettivo è da una parte quello di definire che cosa fa del cinema un “buon” oggetto estetico e sociale, dall’altra quello di tener aperte le porte a nuove ipotesi di cinema, a nuovi cinema possibili. Faccio un esempio: quando Vachel Lindsay descrive i grandi generi in cui il cinema eccelle, e insieme individua nuovi usi a cui esso può votarsi, o quando Louis Delluc si batte per un cinema di maggior qualità, e insieme suggerisce che esso occupa lo stesso ruolo della tragedia greca, entrambi evidenziano delle qualità che appaiono loro evidenti e insieme delle potenzialità che si augurano possano svilupparsi. Questi due obiettivi sono perfettamente funzionali al processo d’istituzionalizzazione del cinema: la teoria classica è uno dei luoghi in cui si cercano di definire principi stabili e insieme si provano a individuare nuovi terreni d’esercizio. Oggi stiamo vivendo una fase di de-istituzionalizzazione del cinema, e la teoria si trova a dover giocare altri ruoli. Basta vedere il modo in cui oggi essa si affaccia sulla scena. Per un verso tiene agganciati una serie di campi di sapere che, per quanto convocati per analizzare aspetti propri del cinema, gli sono in qualche modo esterni: può trattarsi della sociologia, o della psicanalisi, o della psicologia cognitiva, o dell’estetica in senso proprio. Per un altro verso essa si propone come una forma raffinata d’interpretazione dei film, volta a individuare i loro caratteri di cinematograficità, ma in stretta relazione anche al loro rilievo politico, sociale, filosofico. Oggi la teoria non lavora necessariamente a far emergere il cuore del cinema, come nel passato, ma si colloca in qualche modo sui suoi confini. Questo suo gesto mi sembra sintomatico di un tempo – qualcuno lo chiama l’epoca della convergenza, o della digitalizzazione – in cui il cinema si trova costretto a interrogarsi di nuovo sulla propria identità e a cercare il proprio posto nel sistema dei media.

Mi sembra che si possano dire un paio di cose sulla teoria, a partire anche da ciò che hai detto. Da un lato la questione dell’autoriflessività come dato che ha accompagnato da sempre la teoria, dall’altro quello della potenza e della possibilità, quando parli di ciò che erano in grado di far emergere le teorie classiche. Le due nozioni congiunte ci fanno probabilmente capire che la teoria è il momento in cui facciamo emergere autoriflessivamente un linguaggio in tutta la sua potenza. Toccherei ora l’altro corno del problema. Se hai parlato di che cosa è stata ed è la teoria, e della sua attuale importanza, rimane la questione di che cosa possiamo intendere oggi per cinema. Se pensiamo al Novecento, quando parliamo di cinema ci riferiamo essenzialmente a due cose, da un lato all’insieme dei film, dall’altro lato alla sala, ad un ambiente che ha accompagnato e segnato l’esperienza spettatoriale. Le teorie sia classiche sia moderne, comunque le teorie novecentesche sulle quali tu hai riflettuto in L’occhio del Novecento, pur tenendo insieme questi due poli, si sono comunque sbilanciate sull’idea del cinema come effetto dell’insieme dei film, tant’è che cercare di sviluppare e di pensare le potenzialità del cinema non poteva prescindere dal darsi dei film come discorsi. Ho l’impressione che in questa seconda fase del cinema (quella che hai chiamato “Cinema 2”, e adesso chiami cinema rilocato), la teoria rischi di vertere meno sui film come discorsi o come opere e sul cinema come loro effetto, e più sulle pratiche di fruizione, e sul loro profondo modificarsi.

La questione che poni è in qualche modo provocatoria. Suggerisci che ci sarebbe un divorzio tra un’analisi dei film come discorsi e un’analisi delle condizioni della loro fruizione, e che oggi sia la seconda a tener banco. La teoria del cinema nasce anche per tener uniti i due aspetti: penso a Louis Delluc, che recensisce con lo stesso impegno le novità cinematografiche e le sale in cui esse sono proiettate; o a Ricciotto Canudo, che parla sia di arte che della dimensione festiva che la accompagna; o a Victor O. Freeburg, che si interessa sia alla iconografia del cinema che alla sua capacità di creare una pubblica opinione; per non parlare di quell’esempio luminoso che è Siegfried Kracauer, che produce un corpus impressionante di recensioni filmiche, e nello stesso tempo analizza le “piccole commesse che vanno al cinema” o il “culto del divertimento” di cui i grandi Ufa-Palast sono i templi. Ciò che collegava i due aspetti era la convinzione che il cinema mobilitasse dei principi capaci di esprimersi a ogni istante e in ogni piega della sua vita. Dopo Bazin, i due poli hanno cominciato a separarsi. La semiotica degli anni sessanta ha spostato l’attenzione sui film e sul linguaggio cinematografico, a detrimento della fruizione (ridotta a mero momento di “decodificazione” del discorso filmico). La psicanalisi degli anni settanta si è riorientata apparentemente sulla fruizione, ma in realtà mettendo in luce un dispositivo che la ingabbiava totalmente. Deleuze è ritornato ai film, ma come episodi di un disegno complessivo che li trascendeva. I cultural studies hanno cercato di mettere a fuoco il momento del consumo, inquadrandolo in una rete di processi sociali che vanno al di là del cinema. Hai dunque ragione: la teoria degli ultimi cinquant’anni ha fatto fatica a riconciliare i due poli di cui hai parlato, e questa fatica in parte continua anche oggi. Ci sono però due aspetti che mi preme sottolineare. Il primo è che il bisogno di una riconciliazione è piuttosto diffuso, e mi pare che una buona parte dei contributi offerti da “Fata Morgana” ne sia un buon esempio. Il secondo è che ci sono dei concetti che oggi stanno emergendo e che possono rappresentare un punto di giuntura. Penso in particolare al concetto di esperienza cinematografica: l’esperienza è comunque sempre esperienza di qualcosa, di un film, che incontriamo sulla nostra strada; ma è anche esperienza delle condizioni di incontro, oltre ad essere un momento che ci obbliga a interrogarci su quanto ci capita, a confrontarci con qualcosa di effettivo e insieme ad aprirci al possibile, e a ripercorrere qualcosa che abbiamo già provato per scoprire poi un inaspettato. L’esperienza cinematografica è questo confluire di elementi diversi: film, ambienti, contesti, sensibilità. Le tessere del puzzle che in Bazin erano ancora unite possono forse ricombinarsi. Egli affrontava una serie di opere che gli dicevano come il cinema funzionava; attraverso queste opere scopriva anche che cosa il cinema poteva essere; l’affacciarsi di queste opere sulla scena sociale gli permetteva di cogliere il loro retroterra antropologico e i loro effetti – o le loro implicazioni – culturali. Insomma, Bazin giostrava tra film, cinema e ricezione. Forse oggi possiamo ritornare a sognare questo quadro unitario.

Se pensiamo all’esperienza dello spettatore, che passa dalla sala a tutte le modalità nuove in cui un’esperienza di visione si realizza, e pensiamo alla trasformazione dello schermo, che dallo schermo di una sala passa allo schermo-display, ebbene allora vediamo che lo schermo della sala è in primo luogo uno schermo bianco, che esprime una potenza, qualcosa che potrà accadere (quasi un “fazzoletto magico” nel senso di Morin). Dunque l’esperienza che lo spettatore fa vedendo il film è contenuta nella potenza (indicibile) che lo schermo bianco esprime (come il foglio bianco prima della scrittura). Gli schermi-display sono costantemente attivi, non hanno mai uno spazio bianco, sono schermi neri e sembrano non contemplare quella potenza che lo schermo bianco contiene. Questi tre elementi, film, schermo ed esperienza, si legano perché la sala come “luogo del cinema” si fonda sullo schermo bianco che contiene in sé una possibilità di esperienza, a cui corrispondono i film come attualizzazioni di questa potenza; lo schermo-display in quanto schermo nero, che non contiene in sé possibilità, potenza, ma soltanto attualità, e dunque l’illusione di una esperienza, non ha più bisogno di film ma di una immensa produzione audiovisiva che appare e scompare per effetto di un touch. Cambiamenti paralleli dunque: lo schermo da bianco diventa display, il film da oggetto estetico diviene audiovisivo, l’esperienza che conteneva in sé la potenza diventa totalmente altra, si esaurisce in una attualità senza scarti.

Provo a riformulare la tua osservazione in maniera leggermente diversa. Che cosa si può intendere per esperienza? Ritorniamo appunto a Walter Benjamin, e alla sua distinzione tra Erlebnis e Erfahrung. Da un lato abbiamo un cumulo di sollecitazioni a cui il soggetto è esposto, e che in qualche modo lo travolgono; dall’altro abbiamo invece un percorso attraverso cui il soggetto viene a capo di ciò che lo ha colpito, e trasforma le sollecitazioni in un sapere e un saper fare che può essere reimpiegato anche in altre situazioni. Dunque l’esperienza è una realtà a due facce, non a una sola: c’è una sfida ai nostri sensi, spesso all’insegna dell’eccesso, che funziona come una provocazione ma che rischia anche di metterci in scacco; e c’è un ritorno autoriflessivo, che ci porta a interrogarci su cosa ci è capitato e perché; questo ritorno non riuscirà mai a esaurire la ricchezza di quello che abbiamo provato, ma nondimeno ci offrirà strumenti per affrontare altre situazioni in cui ci troveremo. Non a caso la lingua italiana distingue tra “fare esperienza”, con cui si designa il momento in cui impattiamo con qualcosa che ci capita, e “avere esperienza”, con cui si designa il fatto di avere tratto da quell’impatto una conoscenza che ci aiuta a far fronte agli eventi del mondo. È appunto la presenza di entrambe le facce che rende l’esperienza quello che essa è. Se non avessimo sollecitazioni, o avessimo giusto quelle che appaiono scontate, saremmo in uno stato di calma piatta; e se non fossimo capaci di riconoscere quello che ci colpisce, saremmo come i soldati di Benjamin, muti, annichiliti, atoni. L’effetto sarebbe quello di entrare in uno stato di inesperienza: nel primo caso per mancanza di stimoli, nel secondo per incapacità di farcene carico. Ebbene, seguendo il tuo suggerimento, credo che si possa ben dire che lo schermo del display è il luogo dell’inesperienza: il nero è una perfetta metafora dell’assenza di sollecitazioni; se queste ultime ci sono, sono pressoché solo a comando; e io passo dall’una all’altra tenendomi sul pelo dell’acqua (si parla di surfing non a caso) senza impegnarmi in un vero coinvolgimento. Lo schermo cinematografico è invece il luogo dell’esperienza; il suo bianco è il ricordo di tutte le immagini che vi sono passate (è il tema delle bellissime fotografie di Hiroshi Sugimoto) e insieme la promessa di tutte le immagini che vi potranno apparire; quanto alle immagini che vi appaiono, esse mi interpellano, ma insieme si lasciano interpretare, offrendomi delle lezioni di vita. In La galassia Lumière, al termine di un lungo viaggio che mi porta a seguire la migrazione del cinema sui nuovi schermi, da quelli televisivi a quelli del tablet o dello smartphone, non a caso dedico le ultime pagine alla sala buia. È quello che chiamo il ritorno alla madrepatria, al luogo per eccellenza dell’esperienza cinematografica. Naturalmente, durante il lungo viaggio, constato che anche gli altri schermi, specie se vivificati dalla presenza del cinema, possono a loro volta riscattarsi dall’inesperienza: lo ricordo tanto per non essere troppo radicale, e dar l’idea che divido il mondo in due…

Una questione su un luogo teorico importante, quello della cosiddetta specificità. Pensare il modo specifico in cui un’arte è capace di raccontare qualcosa di non specifico, il mondo, la vita: questa è la vera posta in gioco della teoria, che da Canudo ad Epstein, attraverso il Pasolini che “dissolve” il cinema nella vita, arriva fino a Deleuze. Allora mi pare che le proposte teoriche più forti e che restano siano quelle che non risolvono questo movimento ambivalente (e dunque ricco) focalizzandosi sull’aspetto di specificità, ma semmai quelle che dissolvendo apparentemente il cinema nella vita gli permettono di tornare con più forza a se stesso.

Questo legame con la vita è al centro della grande teoria classica – penso a Epstein, Ejzenštejn, Vertov, ma anche ai brevi interventi di Papini e di Lukács, indubbiamente a Balázs, forse un po’ meno a Arnheim, fino a Bazin e Morin, tanto per far dei nomi, ciascuno a suo modo. In questa storia ci sono episodi che mi toccano: è Lucio D’Ambra che nel 1914 propone una cineteca che funga come museo dell’attimo fuggente; è Blaise Cendrars che nel 1919 nel suo racconto La fin du monde filmée par l’Ange Notre-Dame narra di come il cinema, se registrasse sulla pellicola l’apocalisse, potrebbe anche, proiettando questa pellicola, far rivivere il mondo sullo schermo; è Ricciotto Canudo che nel 1923 suggerisce che il cinema è una scrittura (una scrittura con la luce, aggiunge) e che dunque come ogni scrittura ha il compito soprattutto di fissare quello che altrimenti si perderebbe; è Ejzenštejn che nell’ultimo anno della sua vita vuole scrivere una storia del cinema (Antonio Somaini e Naum Klejman hanno portato alla luce i frammenti di questo progetto) e pone al suo centro la capacità di quest’ultimo di misurarsi con la precarietà del mondo. È qui che capiamo cosa il cinema sia stato, e forse continua a essere; ed è qui che capiamo la posta in gioco della sua teoria. La vita con quello che la accompagna. Del resto, è per questo che il cinema vale ancora la pena di essere pensato.