Negli umili oggetti del passato si nascondono spesso le tracce di una grandiosa esistenza. Così un peso di pietra nel quale erano incise alcune lettere ha permesso di risalire al proprietario di una ricca dimora di età imperiale ad Aquileia: Tito Macro. Da lui, secondo un uso adottato negli scavi di Pompei, prende il nome la domus che un innovativo progetto della Fondazione Aquileia, presieduta dall’ambasciatore Antonio Zanardi Landi, ha riportato alle volumetrie originarie.

IL PIANO di valorizzazione e ricostruzione, finanziato con un importo di sei milioni di euro comprensivo delle risorse erogate dalla Regione Friuli-Venezia Giulia e del contributo di Ales S.p.a. (società in-house al Mibact, ndr), ha previsto la risistemazione delle strutture antiche nonché la realizzazione di una copertura in laterizio monocromo sostenuta da pilatri d’acciaio in rosso pompeiano.
I lavori sono stati coordinati dall’architetto Eugenio Vassallo e si sono svolti sotto la supervisione dell’ingegnere Ermanno Simonati per la Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio della Regione Friuli-Venezia Giulia. Il gigantesco tetto – tra i più ampi esistenti in Europa all’interno di un’area archeologica – consente al pubblico di muoversi in una casa romana individuandone più agevolmente l’articolazione, l’ingombro spaziale, i percorsi, le fonti di illuminazione e il rapporto tra le sale principali e le zone scoperte.

Mosaici della domus datati tra il I e il III secolo d.C

NELL’AMBITO del medesimo progetto si è provveduto ad interventi di pulitura, consolidamento e restauro volti alla salvaguardia di 320 mq di pavimenti musivi in bianco e nero o con inserti policromi della domus, datati tra la fine del I secolo a.C. e la metà del I secolo d.C. L’edificio, che si estende per 77 metri in lunghezza e 25 in larghezza massima coprendo una superficie di 1700 mq, era situato tra due strade parallele in senso nord-sud, una delle quali ancora visibile, all’interno di un isolato in piena espansione nel periodo successivo alla fondazione della colonia nel 181 a.C.
Esplorato parzialmente negli anni ’50 del secolo scorso, tra il 2009 e il 2015 il complesso abitativo è stato oggetto di indagini condotte da un’équipe dell’Università di Padova diretta da Jacopo Bonetto, in convenzione con la Fondazione Aquileia. In seguito agli scavi è stato possibile stabilire la planimetria della domus, la prima casa «ad atrio» rinvenuta ad Aquileia, in cui – dopo l’ingresso situato ad ovest, si distinguono un lussuoso tablino (sala di ricevimento) e un giardino circondato da un corridoio mosaicato e dotato di una fontana, sul quale – a sud – si apriva il triclinio (sala da pranzo).

Interni dellla domus, foto di G. Baronchelli

A NORD SI TROVAVA la cucina mentre nella parte orientale è stata riconosciuta la bottega di un panettiere con i frammenti del forno. Le ricerche hanno permesso di appurare le evoluzioni degli ambienti in un lasso di tempo che procede ininterrottamente dal I secolo a.C. al VI secolo d.C. Un anello forgiato in oro e pasta vitrea (II-III secolo d.C.), 1200 monete tra cui un sesterzio di Massimino il Trace – l’imperatore che nel 236 d.C. proprio ad Aquileia trovò la morte per mano dei suoi stessi soldati – e un tesoretto costituito da 560 monete, nascosto attorno al 460 d.C. in una buca dell’atrio, testimoniano il tenore di vita dei proprietari.
La Domus di Tito Macro, inaugurata il 25 settembre, sarà prossimamente arricchita da un allestimento multimediale ma già da ora, come ricorda l’archeologo e direttore della Fondazione Aquileia Cristiano Tiussi, il progetto di valorizzazione – attraverso le sfide architettoniche e la restituzione delle lacune – ha raggiunto l’obiettivo di coniugare la realtà talvolta illeggibile dei resti archeologici con una narrazione immersiva. D’altronde l’attenzione all’accessibilità dei monumenti contrassegna la filosofia della Fondazione che, fin dal 2008, s’impegna per rendere «parlanti» le rovine e i reperti di una città romana strettamente connessa al mondo balcanico, nord-africano e mediorientale. A questa consolidata apertura culturale, hanno fatto eco, negli ultimi anni, anche le mostre promosse dalla Fondazione nel quadro dell’Archeologia ferita, che hanno convogliato ad Aquileia opere provenienti dal Bardo di Tunisi, dalla Persia e da Palmira.