Ho conosciuto Roberto su una spiaggia di Forte dei Marmi. Avevamo circa vent’anni.
Camminando sulla sabbia fui punta da una raganella e fu Roberto a soccorrermi, succhiando via il veleno. Dopo un incontro così intenso, avremmo potuto restare amici per tutta la vita. Invece siamo rimasti conoscenti. Quel che mi colpì allora fu la sua bellezza. Della sua intelligenza sapevo già, perché non si poteva nominarlo senza che qualcuno la citasse.

Poco dopo entrò a far parte della casa editrice Adelphi, con Luciano Foà e Bobi Bazlen.
Un giorno, nella mia casa di Lerici, mi chiese che cosa pensavo di Fleur Jaeggy. Io gli raccontai un po’ quel che sapevo di lei, amica degli anni parigini e lui dopo poco la sposò.
Curiosamente, lo persi di vista, mentre continuai a vedere Fleur.

Tutto questo dice forse qualcosa della confusione della giovinezza, non di chi è stato Roberto.

Ma io questo non lo so. Dopo quel primo contatto ravvicinato, la distanza è diventata un’abitudine. Quella sua voce silenziosa, lo sguardo fuggevole che l’accompagnava, l’ironia, i gesti lenti, il sorriso che si piegava all’indietro, come se incartasse il viso, sembravano fatti per recintare la parola più che offrirla. Eppure le nostre strade continuavano a incrociarsi.

A Roma, anni dopo, li portai in casa di Ingeborg Bachmann, che divenne poi una grande amica di Fleur.
Ancora più tardi, quando diventai editore a mia volta, ci incontravamo nei corridoi della Fiera del Libro di Francoforte, o nei pranzi che davano gli editori, o nelle sale del Frankfurter Hof, l’albergo dove editori e agenti proseguivano i colloqui interrotti alla Fiera. O a Venezia, nella settimana della Scuola dei Librai della famiglia Mauri. Incontri che giravano sempre intorno ai libri.

Perché era intorno e dentro di loro che si svolgeva la vita di Roberto.E spesso la vita dei libri si svolgeva dentro di lui, come rivelano non solo i libri che Roberto scrisse, ma tutti quelli che pubblicò.
Che cosa vuol dire essere il migliore editore italiano (non il più grande, il più grosso, ma il migliore)? Esserlo per cinquant’anni?

Certo, Roberto ebbe come maestro Bobi Bazlen, come principale un uomo squisito e libero come Foà, come compagno per i primi anni un sottile pozzo di scienza come Claudio Rugafiori, ma, un decennio dopo l’altro, fu lui a tenere il timone, ora accettando di far comprare la sua nave da qualche armatore, ora ricomprandola (lo fece due volte se non sbaglio), sempre mantenendo la sua nave a galla e conducendola esattamente dove voleva, appena toccata dagli spruzzi, mai sotto l’onda, diritta, di bolina.

L’ideale, la speranza di un editore è che il lettore compri i suoi libri senza leggere il titolo, per pura fiducia. Questo è stata l’Adelphi.

Da bambina mi accartocciavo davanti agli scaffali della Bur. Da grande mi fermo davanti a quelli di Adelphi. L’opera completa di Nietzsche, la letteratura austriaca scoperta dietro le copertine azzurre, un libro dopo l’altro, quella eleganza, sempre più rara e indefettibile.

Una casa editrice snob? Sì, se dio vuole! Una casa editrice che non strizza l’occhio, che guarda nei tuoi, che pensa che la cultura sia il pane essenziale alla sopravvivenza.
Vengono i brividi a pensare a un’Italia senza Adelphi.

E pensando a Roberto, il ragazzo che buttato sulla sabbia succhiava il veleno e l’intellettuale riservato e altero, che ci ha offerto in dono il suo gusto e il suo sapere per tutta la nostra vita, mi sembra di intravvedere il filo segreto che li unisce. E li ringrazio entrambi, con tutto il cuore.