Nel mese di febbraio, alla Città del libro di Stradella per alcuni giorni sono stati bloccati gli ingressi e le uscite. Hanno scioperato circa la metà dei facchini che scaricano, sistemano sui bancali, imballano e spediscono i cento milioni di libri che ogni anno entrano ed escono dalla Ceva logistics, centro nevralgico della distribuzione editoriale in Italia. Ogni giorno, qui arrivano 60 mila rese, i libri invenduti rimandati indietro dalle librerie. Bisogna poi preparare, palmare alla mano, gli ordini con i quantitativi dei testi da inviare, e c’è il lancio novità, vale a dire le spedizioni dei volumi in uscita, che hanno una data di consegna precisa. I clienti più importanti della Ceva logistics sono due colossi dell’editoria libraria italiana come Messaggerie e Rcs, che vuol dire la quasi totalità delle case editrici, da Feltrinelli a Mondadori. Inoltre, c’è Amazon, il gigante che ha rivoluzionato la vendita di libri. Alla Ceva arrivano gli ordini per rifornire i magazzini della compagnia fondata da Jeff Bezos, dai quali partono le consegne a domicilio per i clienti senza passare per le librerie tradizionali.

A INDIRE LA PROTESTA è stato il SiCobas, sindacato di base germogliato nelle basi logistiche del capitalismo padano dove, fino a non molto tempo fa, la militanza sindacale era considerata un valido motivo per essere messi al bando. I manifestanti chiedevano, fra le altre cose, che le nuove assunzioni fossero gestite direttamente dalla società che gestisce la struttura e non appaltate o subappaltate a finte cooperative che fanno carta straccia dei diritti del lavoro. Le altre rivendicazioni riguardavano un aumento dei buoni pasti e dieci minuti in più di pausa pranzo.

LA CEVA, COMMISSARIATA dal Tribunale di Milano per «sfruttamento di manodopera» nel maggio 2019 a seguito dell’inchiesta su un sistema diffuso di caporalato nell’azienda, si è detta «stupita» perché, a suo parere, nell’ultimo anno le cose sono cambiate: la multinazionale è stata acquistata dalla compagnia marittima francese Cma Cgm, che ha sostituito i vertici e avviato un nuovo corso, imponendo nuove regole aziendali. «Il confronto avviato con i rappresentanti sindacali ha portato a più di duecento stabilizzazioni a tempo indeterminato e al miglioramento delle condizioni lavorative dei dipendenti, sia dei diretti Ceva sia di coloro che riportano al consorzio, dal punto di vista dell’ambiente di lavoro e retributivo», ha scritto in una nota. A dargli implicitamente ragione è stato, a sorpresa, proprio il pubblico ministero che meno di un anno fa aveva chiesto l’amministrazione giudiziaria. Il 13 febbraio Paolo Storari ha presentato al Tribunale una richiesta di sospensione del provvedimento motivandolo con il rinnovo dei vertici aziendali, l’aumento degli stipendi del 25 per cento e con gli importanti cambiamenti organizzativi e operativi che dovrebbero impedire di tornare alla precedente giungla lavorativa e retributiva.

PURE ALLA CAMERA DEL LAVORO di Pavia non appaiono convinti dello sciopero. «La situazione è migliorata sensibilmente, da tutti i punti di vista, oggi alla Città del libro si applicano i contratti nazionali e non ci sono più turni di dodici ore», spiega il segretario della Filt-Cgil Sergio Antonini. La Cgil non si è associata al sindacato di base, prendendosi pure qualche insulto. Antonini non ci sta però a passare per «crumiro». «Mi chiedo dov’era il SiCobas quando c’era quel sistema di sfruttamento all’interno della Ceva, mentre noi denunciavamo e in seguito ci costituivamo parte civile al processo», contrattacca.

IL SINDACALISTA DELLA CGIL mette il dito nella vera piaga, che riguarda quanto è accaduto fino a due anni fa tra gli 80 mila metri quadri del magazzino di Stradella. Il 27 luglio del 2018 un’inchiesta della procura di Pavia aveva svelato una realtà di abusi nei confronti dei lavoratori e di evasione fiscale, tra il consorzio Premium Net che aveva preso in gestione lo stabilimento e le quaranta cooperative che vi avevano lavorato negli ultimi anni e che attraverso schermi societari e giri di prestanome facevano capo sempre allo stesso gruppo di persone.

Dodici persone, tra le quali il titolare del consorzio Giancarlo Bolondi, erano state arrestate, ed erano stati sequestrati beni mobili e immobili per 15 milioni di euro. Il 12 febbraio scorso, al processo nei confronti dei tre responsabili di Premium Net che hanno chiesto il rito abbreviato, l’accusa ha chiesto condanne per quasi quindici anni di carcere, otto dei quali per Bolondi, considerato il dominus del sistema di sfruttamento.

L’INCHIESTA AVEVA CONSENTITO di svelare un inferno quotidiano fatto di vessazioni e minacce per chi solo provava ad alzare la testa, e di condizioni lavorative al di fuori delle regole. Il tribunale, nel provvedimento di commissariamento, aveva parlato di «lavoratori costretti a ritmi gravosi, straordinari imposti sotto continua minaccia di licenziamento, omesso versamento di contributi, retribuzione difforme dalle ore lavorate». Lo sfruttamento si annidava nella catena di rapporti di fornitura che dalla Ceva arrivavano alle cooperative che impiegavano i lavoratori, passando per il consorzio Premium Net, un colosso da 10 mila dipendenti che gestisce commesse in tutta Italia con clienti di spicco come «Tim, Wind, Johnson&Johnson, Buffetti, Lavazza, Daikin, Henkel, Rcs, Sole 24Ore e altri», si legge nel decreto di commissariamento.

LE DENUNCE ERANO PARTITE proprio dalla Camera del lavoro pavese. «Tutto è cominciato quando abbiamo scoperto che all’interno dello stabilimento c’era un’agenzia interinale con sede a Bucarest che proponeva contratti a termine pagati parte in euro e parte in leu, la moneta rumena», raccontano. Si chiamava Byway Jpb Consulting e proponeva contratti da 1.400 leu, l’equivalente di 307 euro. Ai lavoratori “rumeni”, non solo italiani ma tutti residenti nell’Oltrepò Pavese, era pagata la trasferta come se arrivassero da Bucarest, il che consentiva di mascherare la truffa e allo stesso tempo di risparmiare sulla retribuzione e sui contributi. Centosettanta facchini e magazzinieri, sui 1.400 dipendenti dello stabilimento, erano stati reclutati in questo modo e destinati ad alcune cooperative.

Dopo diverse denunce e inviti a farla finita con questo sistema di reclutamento caduti nel vuoto, il sindacato aveva deciso di bloccare i cancelli e la magistratura aveva aperto un’inchiesta. Per diversi giorni 150 finanzieri bloccarono l’impianto e convocarono i lavoratori per farli testimoniare. Vincenzo Agrillo era uno di questi. Aveva accettato il trasferimento a Stradella dal centro di distribuzione libri della Rcs per il centro-sud, a Pomigliano d’Arco, quando il proprietario della società che aveva in appalto il magazzino ne aveva annunciato la dismissione. «Facevo il picker, preparavo gli ordini, il contapassi che indossavo contava tra i 15 e i 20 km al giorno», racconta, quanto una mezza maratona a passo veloce. «Dovevo spostare 10 mila libri per turno, era un lavoro insostenibile. Di notte, il mio compagno mi vedeva piangere sempre perché avevo dolori ovunque, in particolare forti dolori alle braccia e alle gambe. Successivamente sono stata in cura all’ospedale San Matteo per varie patologie», aveva raccontato agli inquirenti una lavoratrice. Gli inquirenti avevano raccolto circa trecento testimonianze, dalla impiegata rumena che aveva raccontato di andare avanti da sette anni con contratti di tre mesi puntualmente rinnovati ad altri che avevano parlato di «rinnovi settimanali» nel reparto picking. La produttività era misurata in base alle «righe», vale a dire «il prelievo di due libri al minuto», e un’altra operaia aveva spiegato che doveva eseguire «almeno 130 righe al giorno», per dodici ore di lavoro, «e quando non sono stata più in grado di sostenere questi turni così pesanti, dovendo accudire mia madre disabile, sono stata lasciata a casa«.

Agrillo non era un “rumeno” pagato in leu, nondimeno lavorava di regola anche undici o dodici ore. «Non avevi la possibilità di decidere, spesso ti comunicavano il turno del giorno seguente la sera prima e, se protestavi, il giorno seguente ti lasciavano a casa o ti destinavano a lavori più faticosi», dice ancora. Secondo i magistrati, Ceva era «consapevole» di questo sistema, poiché «Premium Net offriva ai propri clienti prezzi molto al di sotto di quelli necessari a coprire soltanto i costi diretti delle stesse commesse, risultando quindi obbligata ad abbassare i costi reali della componente lavoro molto al di sotto di quella scaturente dalla corretta applicazione del contratto collettivo nazionale».

Ciononostante, l’imprenditore con residenza in Svizzera Gianfranco Bolondi, considerato dagli investigatori al vertice del sistema di caporalato, non pareva passarsela male, almeno a giudicare dal maxisequestro di beni ordinato dalla procura di Pavia, per il quale nell’udienza del 13 febbraio è stata chiesta la confisca definitiva: tra questi, case in val d’Aosta, a Camogli e sul Garda, a Porta Romana e Porta Venezia a Milano. La sentenza è prevista per i primi di marzo. Alla Ceva finalmente si può scioperare senza paura.