«Certo che noi americani abbiamo un bel problema col presidente, forse ce la faremo a cambiarlo». La battuta è di Dave Douglas a metà concerto circa. Sala Petrassi dell’Auditorium romano. Pubblico foltissimo che applaude e ridacchia ma dovrebbe riservare più entusiasmo all’aperto credo democratico del musicista. In ogni caso accoglie bene la sua musica. Che propone a capo di un quintetto formato da lui alla tromba, da Jon Irabagon al sax tenore, da Matt Mitchell al pianoforte, da Linda Oh al contrabbasso, da Rudy Roystone alla batteria.

In apertura Irabagon, uno delle nuove stelle del sax nel cielo jazzistico recente – si sa che il cielo del jazz cambia sempre -, suona una frase breve assai destrutturata ed espressionista, posta appena prima dell’esposizione della traccia tematica. È un momento sorprendente e prezioso.
Anche perché più avanti Irabagon rientrerà in canoni musicali più consueti. Il tema, non chiuso, «senza misura», come saranno tutti quelli di Douglas nel corso del concerto, si può definire post-cool e risente del free molto da lontano. Si nota subito la contrabbassista Oh: grande sapienza con l’archetto nei suoi controcanti.Musica mainstream? No, proprio no. Musica di congiunzione e miscela non catalogabile tra una tradizione modernista generosa e la conoscenza di quella che un tempo era l’avanguardia nel jazz.

Del resto è questo l’uso metodologico più rinvenibile nella recente produzione jazzistica, specie americana. Douglas è stato sperimentatore con gruppi cameristici, è stato partner fisso di John Zorn nel quartetto Masada, ma ha sempre mantenuto una sua visione «moderata» assolutamente nobile. In assolo si basa sulla tradizione, allargandosi a echi di un Roy Eldridge, a echi della «scuola Blue Note» di trombettisti. Invece la sua scrittura nelle parti tematiche e nelle parti d’assieme è più rigorosamente neo-modernista. Costruita su un melodismo controllato, appena un po’ «cerebrale», sicuramente non lezioso o melenso.

Chi spicca nel gruppo è Matt Mitchell. Più libero (se vogliamo anche più superficiale) di quando lo ascoltiamo nell’ensemble Snakeoil di Tim Berne, esplode con un fraseggio sontuoso, a tutta tastiera, con progressioni ascendenti spettacolari e trovate inattese. Fluido, morbido un po’ troppo (gli piace tanto il pedale!), è di certo il big della situazione quanto a sortite solistiche. Si diverte, eccede in svolazzi e corse, ma tant’è. Linda Oh in assolo divide il primato con lui ma lo batte in asciuttezza. Suono pulito, secco, deciso, fraseggio sorretto da fantasia inesauribile che attinge a tutto il sapere jazzistico nelle punte avanzate senza sfiorare l’avant-garde, che qui, in questo concerto, è bandita.

Un brano dedicato a Mingus è il clou della serata. Rigore e commozione. Douglas in assolo va via in blues magnificamente, sempre non convenzionale, su un’«ostinato» di bassi del pianoforte. Forse questa musica non è sperimentale in senso stretto, ma ci fa sperimentare il sentimento dell’ammirazione.