Non c’è probabilmente niente di più vario e personale del rapporto col cibo. Chi ce l’ha patologico o stradietetico, equilibrato o ipocalorico, ascetico sorvegliato o buongustaio abbuffone. Dentro crepitano l’educazione familiare, le scelte della vita adulta, gli incontri e le esperienze in cucina, la capacità di accontentarsi con poco o meno.

NELLA SUA LUNGA AVVENTURA editoriale, Erri De Luca ha aggiunto queste note alimentari – avvincenti e sfiziose, narrate in modo esemplare, con nitore e precisione di scrittura – certamente autobiografiche, in Spizzichi e bocconi (Feltrinelli, pp. 190, euro 16,50), delle novelle curiose e frammentarie accompagnate dalle riflessioni di Valerio Galasso, biologo nutrizionista, sulla necessità di una corretta alimentazione per prevenire malattie e migliorare la nostra qualità della vita.

Così anche le pietanze che ci hanno accompagnato dall’infanzia vanno riguardate alla luce dei mutamenti avvenuti negli ultimi cinquant’anni nella freschezza, nella distribuzione e nella produzione del cibo. Ad esempio la consapevolezza di evitare cosa può nuocere al nostro organismo, con i noti «quattro veleni bianchi» (sale, zucchero, latte, farina 00) e tutto il contorno di proteine, carboidrati e grassi coi consigli di educazione alimentare: fare bocconi piccoli da masticare più volte, postura diritta a tavola con gomiti aderenti al corpo, fare attività fisica.

Consigli necessari oggi che il tempo di preparazione delle vivande si è ridotto e le attività comuni familiari sono quasi scomparse (solo nel sud si fanno le bottiglie di pomodoro per l’inverno o le marmellata con la frutta di stagione). Quello di De Luca è un inno alla sobrietà, alla moderazione nell’esistenza («a casa mangio in un piatto unico e spesso senza, direttamente nella padella») per le generazioni occidentali del dopoguerra che si sono liberate di una sofferenza millenaria: la fame. Quella umiliante condizione umana che ha perseguitato l’umanità dai suoi esordi e ha spinto ad emigrare intere popolazioni e nel 2022 si riaffaccia, con la guerra alle porte dell’Europa.

LO SCRITTORE aveva già guidato convogli di pacchi alimentari durante il conflitto in Bosnia e l’ha fatto anche per la guerra in Ucraina. Proprio le sue idee su Belgrado e la guerra civile jugoslava hanno fatto interrompere diversi rapporti d’amicizia. Eppure tutto il volume racconta di condivisione, d’incontri, di stare insieme legato al cibo, dai pasti consumati in cantiere e nei campi base in ascesa sulle vette fino al periodo delle osterie, «stanze di popolo», dove le generazioni si mischiavano nei tumultuosi anni Settanta. Persone e alimenti fraterni in tempi severi per la costruzione di un onnivoro che si tiene leggero, così si autodefinisce. Proprio le pagine su un misterioso Natale nella nebbia sono incantevoli e purtroppo premonitrici, una notte di pace in mezzo alla guerra.

Il suo primo piatto cucinato, lontano da casa, furono due uova al tegamino, con le istruzioni della nonna al telefono e la successiva pasta soffrì dell’incapacità di fare un qualunque sugo. «La domenica andavamo a pranzo dalla mamma di mamma, nonna Emma. Lei e sua nuora Lillina, dal venerdì sera si alternavano presso la fiammella minima che asciugava il ragù, rraù in lingua e palato locale. Il nostro arrivo a mezzogiorno in anticamera era accolto da un grido di ragù dritto nel naso. Quel sugo urlava, era uno stadio in piedi dopo un gol, era un abbraccio, un salto e una cascata dentro le narici».

LE RICETTE DI EMMA E LILLINA, autentica memoria e trasmissione di cultura, sono in fondo al libro (trascritte dalla cugina Alessandra Ferri), testimonianze di abilità diffusa nelle famiglie partenopee per la preparazione dei pranzi. Una scelta di parte, note abbastanza più scarne rispetto a quelle di Jeanne Carola Francesconi, l’autrice del volume La cucina napoletana, forse il più completo elenco di gastronomia partenopea, nonché cuoca di cene leggendarie per l’alta società napoletana.

Il suo piatto preferito è la parmigiana di melenzane, che passa per tre fuochi «il sole che asciuga le fette, l’olio che le frigge, il forno che le fonde con le altre componenti». Gliela faceva la madre e da quando lei non c’è più, non l’ha più mangiata, una forma di astinenza per lutto. Poi ci sono i friarielli, il pesce azzurro, le fritture, il caffè, tutto il calderone. Unica eccezione dolciaria, in una regione che ha reinventato il babà e ha una colossale quantità di pasticceria, è la profumata pastiera che segna l’arrivo della primavera. «Dura una settimana, una porzione a sera… Affondo la forchetta nell’umido fragrante come un Aladino che sprigiona il genio della lampada capace di esaudire un desiderio. Tornare a sedermi alla tavola dove nessuno ancora era mancato. E così avviene».