Radwan Hazaa sta ripiantando i melograni sul suo terreno nel villaggio di Deir al-Asafir, a Ghouta Est, Siria. Deve compensare la perdita di oltre 3.000 alberi, vittime dell’incuria e della mancanza di acqua in questi ultimi, difficilissimi anni di guerra.

Ghouta, cantata dai poeti, Eden per le carovane che giungevano dal deserto, era il frutteto di Damasco. Ha perso moltissimi alberi durante il conflitto e la prolungata siccità – ne leggiamo sul sito oraprosiria –, ma quest’anno le piogge abbondanti e la fine degli scontri hanno dato speranze a chi è tornato e a chi non se n’è mai andato. Senza saperlo, gli agricoltori di Ghouta che ripiantano i loro alberi da frutto partecipano a uno sforzo internazionale che allarga rami e radici dovunque.

LA TRILLION TREE CAMPAIGN, infatti, propone ai cittadini e alle nazioni del mondo l’obiettivo di piantare almeno mille miliardi di alberi in trent’anni per «catturare il 25 per cento delle emissioni globali di gas serra» (la fotosintesi clorofilliana sottrae anidride carbonica all’atmosfera) e creare benessere nel Sud globale». La campagna, avviata dal Programma delle Nazioni unite per l’ambiente (Unep), nasce nel 2006 come Billion Tree Campaign e il suo obiettivo iniziale – raggiunto – è piantare un miliardo di alberi nel 2007. Negli anni successivi cresce rapidamente, tanto che nel 2017 cambia nome: trillion, ovvero mille miliardi. I cinque paesi più attivi sono: Cina, India, Etiopia, Pakistan, Messico. L’Italia si difende al dodicesimo posto. Giustamente, avverte il sito, «non vengono calcolati i rimboschimenti che sostituiscono alberi tagliati a scopo commerciale». Del resto, il primo comandamento è: non deforestare. Su terreni abbandonati o degradati, ma anche in città, chiunque pianti piante può registrarsi. Per ora il conteggio è arrivato a 13,6 miliardi. «Mille miliardi di alberi catturerebbero dall’atmosfera l’equivalente di almeno 10 anni di emissioni antropogeniche di gas serra, con una serie di altri vantaggi, dall’acqua al cibo. Ecco il nostro strumento più potente contro i cambiamenti climatici» spiega il docente di ecologia Thomas Crowther.

SI CHIAMA FELIX FINKBEINER IL DICIANNOVENNE bavarese che anima la fondazione tedesca Plant-for-the Planet, alla quale nel dicembre 2011, dopo dodici miliardi di alberi piantati, l’Unep ha affidato la gestione della Trillion Tree Campaign. La riforestazione è ampiamente citata dall’Ipcc (il gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici) fra le misure di mitigazione, in particolare nell’ultimo rapporto (agosto 2019), focalizzato sull’uso dei suoli. Non si tratta della panacea in grado di permettere che continui l’insensato business as usual in tutti i settori della produzione e del consumo. E molti programmi di rimboschimento si sono rivelati non adatti. Ma di certo, è indispensabile piantare nei luoghi giusti le piante giuste.

E SI CHIAMA «PIANTA! INSIEME PER IL CLIMA» il progetto avviato nella zona del Sulcis Iglesiente in Sardegna. Comuni, scuole, associazioni come il Centro sperimentazione autosviluppo e il Comitato per la riconversione della fabbrica militare Rwm si sono messi insieme per «piantare con metodi naturali e curare tantissime piante nei parchi, nei giardini, nei balconi, negli orti, nelle aiuole, lungo i viali e le strade. E’ il modo più immediato per assorbire l’anidride carbonica ma anche per ridare vita al suolo, per dare aria fresca, bellezza, comunità, responsabilità alle cittadine e ai cittadini delle nostre città e dei nostri paesi». Fra i primi interventi del nuovo progetto il ripristino di un’area incendiata. Del resto in Sardegna è attiva da tempo l’associazione L’uomo che pianta gli alberi (dall’omonimo libro di Jean Giono), specializzata nella rigenerazione nelle aree devastate dal fuoco.

LA NAZIONE DELLE PIANTE, scritto dal neurobiologo vegetale Stefano Mancuso, e la Carta dei diritti dei viventi scritta dalle piante (una «nazione senza confini e basata sul mutuo appoggio delle comunità naturali») sono un riferimento per il progetto sardo. Se Primo Levi (ne La tavola periodica degli elementi. Nichel) inneggia agli alberi che sono «come noi, gente anche loro, che non parla, ma sente il caldo e il gelo, gode e soffre, nasce e muore (…)», per Mancuso in realtà «la comunità vivente delle piante, che si autogoverna da milioni di anni, è molto più evoluta della nostra». Il neurobiologo esorta tutti ad attivarsi: «Difendiamo le foreste e copriamo di piante le nostre città, il resto non tarderà a venire». C’è chi è attivo da decenni. Come, in Burkina Faso, Daniel Balimà, protagonista del documentario L’Uomo degli alberi. Da Tenkodogo si racconta con semplicità: «Sono agricoltore e vivaista da 50 anni, ho seminato e fatto crescere più di un milione di piantine, sono contento di questo lavoro per il nostro paese e per mantenere la mia famiglia». Daniel spinge a braccia con una sorta di manubrio la sua carrozzina da casa al campo: non ha l’uso delle gambe fin da bambino per via della poliomielite. Il vivaista del Burkina Faso ha contributo alla lotta contro la desertificazione nel paese di Thomas Sankara, presidente visionario ucciso nel 1987, per il quale piantare alberi e non tagliare quelli in piedi era una priorità sociopolitica che passava anche attraverso la creazione dei boschi di villaggio e dei relativi vivai. Sankara ha fatto scuola, a decenni dalla sua morte.

IL PROGETTO DELLA GRANDE MURAGLIA VERDE per il Sahara e il Sahel interessa il Burkina e altri diciannove venti paesi della regione sahelo-sahariana, colpita da una desertificazione che spinge e spingerà milioni di persone ad andarsene. Entro il 2030 dovrebbe aver ripristinato 100 milioni di ettari questa gigantesca iniziativa, lanciata nel 2007 dall’Unione africana, con l’ambizione di recuperare gli ecosistemi, assorbire gas serra e trasformare le vite degli abitanti, facendo crescere «il più esteso organismo vivente del pianeta». Più che una barriera di alberi larga 15 chilometri come prevedeva il faraonico progetto iniziale, si tratta di un mosaico di interventi locali per la rigenerazione del territorio, con specie autoctone e grazie al lavoro degli stessi abitanti e contadini.

ANCHE LA CINA, CHE COMBATTE CONTRO l’avanzata del deserto del Gobi, da decenni sta costruendo la seconda muraglia della sua storia, per completarla entro il 2050; sarà lunga 4.500 chilometri. Centinaia di milioni di alberi piantati hanno in effetti diminuito le aree desertiche. Ma per far presto, la scelta è caduta su specie dalla crescita sì veloce, ma idrovore, a scapito della falda freatica. Quattro miliardi di alberi in totale si propone di piantare l’Etiopia – è il recente annuncio del primo ministro –, con il progetto Green Legacy come parte dell’iniziativa per la Grande muraglia africana. Sembra una mission impossible: 40 alberi per ognuno dei 105 milioni di abitanti (anche se non si precisa entro quanto tempo; l’Australia dal canto suo punta a un miliardo da qui al 2050). Ma potrebbero farcela, visto che agli inizi di agosto in 12 ore gli etiopi, tutti mobilitati, hanno piantumato 350 milioni di piantine, superando il record indiano stabilito nel 2017.

SONO TANTI I DANNI AI QUALI PORRE RIMEDIO nel paese: i cambiamenti climatici accentuano i fenomeni di siccità, il patrimonio arboreo ha subito la concorrenza di 70 milioni di animali che richiedono pascolo e foraggio e tanto che la copertura forestale era scesa al 4% del territorio, il prelievo di legna da ardere supera le capacità di rigenerazione. In un altro paese africano, l’Uganda, i contadini di alcuni villaggi sono stati pagati per non tagliare le piante: con buoni risultati. Il principio guida dovrebbe essere l’agroforestry o agroselvicoltura che, come è stato stato sottolineato durante un recente congresso mondiale a Montpellier, è l’insieme dei sistemi colturali che combinano specie arboree (forestali o agrarie) con coltivazioni erbacee e/o pascolo, sulla stessa superficie. Positive le ricadute di questa copertura ininterrotta del suolo: mitigazione climatica, più sicurezza alimentare, biodiversità. I sistemi agroforestali tradizionali contengono dal 50 all’80% di specie vegetali rispetto alle foreste naturali. E i primi e le seconde sono una miniera di alimenti sani e commestibili. L’agroselvicoltura (oggetto anche del programma Afinet in Europa, contro il dominio della monocoltura agricola) ha tante declinazioni possibili. In Kirghizstan vengono inseriti alberi da frutto in piantagioni da legname; in Nepal ci si concentra sulle aree interessate da forti fenomeni migratori; in Honduras nelle zone colpite dalla siccità si riesce a conservare meglio l’acqua. Tuttora un miliardo di persone vivono nei pressi delle foreste (utilizzandone i prodotti, anche non legnosi) e 500 milioni di coltivatori nelle zone tropicali hanno alberi da reddito nei loro appezzamenti. Gli alberi offrono ossigeno, frescura, richiamano l’acqua, proteggono contro l’erosione dei suoli e regalano frutti nutrienti. Insiste sui «boschi fruttiferi» la Misión Árbol in Venezuela, avviata nel 2006 dall’allora presidente Hugo Chávez e coordinata attualmente dal ministero dell’ecosocialismo. Gli alberi da frutto vengono scelti prioritariamente anche per l’agricoltura urbana (come Cuba fa da molto tempo) e insieme agli orti scolastici, per migliorare la situazione alimentare e la coscienza ecologica. Spiega l’agroecologo Miguel-Angel Núñez Núñez: «Nell’affrontare la crisi economica, ci ispiriamo anche alle consociazioni tipiche dei conucos, alla tradizione agroforestale contadina caraibica, andina e amazzonica. E ne facciamo colture di resistenza».

DOPO DECENNI DI GUERRA, le foreste in Afghanistan, secondo una valutazione dell’Unep (Programma delle Nazioni unite per l’ambiente) si sarebbero ridotte del 50-80%, soprattutto nell’area orientale del paese. Conflitto, siccità, fame, cambiamenti climatici e l’eterno prelievo di legna da ardere: malgrado questa corona di spine sul capo, anche quel paese ha patrimoni naturali da proteggere e valorizzare. Delle foreste spontanee di pistacchi, presidio di Slow Food, Ghulam Rasoul Samadi, consulente del ministero dell’agricoltura spiega: «Il pistacchio, autoctono e spontaneo su una lunga striscia che va da Herat a Mazar-i-Sharif, è uno degli alberi fruttiferi più tolleranti alla siccità. Storicamente ha avuto un ruolo alimentare ed economico importante per gli abitanti. La principale produttrice è la provincia di Badghis, con 30.000 tonnellate. Ma ormai una parte non è più accessibile, perché è sotto il controllo dei talebani», che ne fanno una fonte di reddito – forse meno conveniente dell’oppio. Esiste comunque una comunità di raccoglitori impegnata a preservare quanto possibile la striscia di alberi di Pistacia vera, come altre preziose colture, dalle viti agli albicocchi.

IN UN ALTRO PAESE TORMENTATO DALLA GUERRA e scarso in risorse idriche, lo Yemen, il già risicato manto forestale del paese ha subito anche l’attacco della miseria: l’assoluta mancanza di lavoro e risorse ha accentuato il ricorso agli alberi come legna da ardere e fonte di reddito. Ma c’è anche chi per questo stesso scopo si è messo a piantarli. In Guatemala invece sono i trafficanti di cocaina, insieme agli allevatori, a provocare i fuochi che devastano la Laguna del Tigre. Il più esteso parco nazionale ha perso in pochi anni il 30% della superficie. Notizie ancora più preoccupanti dalla foresta amazzonica, grande scudo protettivo contro il caos climatico visto che quei miliardi di alberi trattengono un’enorme quantità di CO2. Con il presidente del Brasile Jair Bolsonaro, la deforestazione è in pieno boom: ogni minuto viene raso al suolo un ettaro, in particolare per creare nuovi pascoli per i bovini o le coltivazioni di soia. Per non parlare dell’inferno di fuoco nelle foreste della Siberia. Secondo Greenpeace Russia nel 2019 sono bruciati oltre 13 milioni di ettari, il più grande e distruttivo incendio boschivo della storia. Alberi e animali inceneriti, un altro polmone verde perso, un’enorme produzione di CO2 e di particelle di carbone che volano fino ai ghiacci dell’Artico.