Gli scritti con i quali filosofi come Celso, Porfirio, Giuliano, Ierocle criticarono e confutarono «l’irrazionale superstizione» dei cristiani ci sono noti quasi soltanto dalle citazioni, dalle polemiche, dalle refutazioni e manipolazioni dei cristiani stessi, poiché i testi originali furono distrutti e bruciati in modo sistematico dai loro avversari.
È questo il dato al centro della ricostruzione accurata, anche se a volte ripetitiva, che in Nessun dio è mai sceso quaggiù. La polemica anticristiana dei filosofi antichi (Carocci, pp. 550, euro 46) Marco Zambon conduce del tentativo attuato dai filosofi antichi tra il II e il VI secolo di mostrare l’incompatibilità tra il loro mondo e quello dei cristiani.

FILOSOFIA E FEDE CRISTIANA appaiono inconciliabili per tre ragioni fondamentali. La prima concerne lo statuto della verità, che per la filosofia è una ricerca sempre aperta, svolta a partire dalla convergenza tra ciò che si osserva del mondo e la riflessione razionale che viene condotta su di esso. Per i cristiani, invece, la verità è un dato della rivelazione al quale si accede con la fede e che rimane sempre identico, incontestabile, fuori da ogni discussione e argomentazione.
La seconda ragione riguarda lo statuto del divino, che per la filosofia greca è plurale e molteplice, mentre per il cristianesimo e le altre religioni del libro è un’identità monoteistica che respinge da sé ogni differenza.

LA TERZA RAGIONE si riferisce allo statuto dell’umano, il quale per i filosofi antichi ha nel mondo una specificità che non diventa mai una differenza assoluta e di valore. Il cristianesimo dà invece all’essere umano un privilegio e una superiorità assoluti, come immagine di dio.
Ai tre elementi fondamentali concernenti la verità, il divino e l’umano, si aggiungeva l’inaccettabile rozzezza concettuale e stilistica del linguaggio biblico, della quale molti tra gli stessi apologeti cristiani erano consapevoli, costituendo anche «per loro un serio ostacolo e un motivo di imbarazzo». Questi elementi di dottrina si coniugavano con i comportamenti pratici dei cristiani, i quali in generale «negavano ogni dignità agli dèi visibili, gli astri, e però veneravano un cadavere» e lo strumento che era servito al suo supplizio, la croce. L’atteggiamento aggressivo dei cristiani verso i loro avversari e verso i beni altrui si manifestava ad esempio nella «violenza con la quale i monaci s’impadronivano delle terre dei contadini, dichiarandole sacre e saccheggiandole».

LA VIOLENZA appare talmente intrinseca alle fedi monoteistiche da esprimersi anche come violenza tra i cristiani stessi – che si accusavano reciprocamente di eresia – e di ogni cristiano contro di sé. Lo dimostrano le cosiddette persecuzioni, le quali – tranne che in circoscritti intervalli temporali – furono in realtà una invenzione degli apologeti e della storiografia cristiana. Le leggi romane e i loro giudici furono infatti per lo più riluttanti a punire i cristiani. L’imperatore Traiano ordinò che essi non venissero cercati e non si desse seguito a denunce anonime nei loro confronti. Quando arrivavano a processo, le condizioni per uscirne assolti erano assai miti ma venivano rifiutate poiché il martirio conduceva al Paradiso. In generale, «prima di Costantino, i cristiani non sono vissuti in uno stato di persecuzione generalizzata; anzi, hanno potuto contare per lo più su un’ampia tolleranza di fatto da parte delle autorità».

Una volta arrivati al potere, il loro atteggiamento verso i pagani fu invece molto violento: distruzione sistematica dei templi e degli altri luoghi di culto, incendio delle biblioteche che conservavano libri e documenti di culture secolari, omicidi individuali e stragi collettive. Quando Celso scrive che «nessun dio, o giudei e cristiani, e nessun figlio di dio è mai sceso, né potrebbe scendere quaggiù», questo significa che nessuna fede verso un insegnamento assoluto può esimere il cammino umano dalla fatica del comprendere e del costruirsi.
È anche per questo che la filosofia riemerge sempre dalle macerie delle certezze fideistiche, perché il bisogno e l’inquietudine della ricerca appartengono alla natura stessa dell’animale umano.