La globalizzazione è, tra le altre cose, un grande fenomeno di inurbamento e di crescente centralità delle grandi aree metropolitane del mondo: si tratta delle così dette «città globali» delle quali ha parlato Saskia Sassen in un fortunatissimo libro dell’ormai lontano 1991. Città globale, tuttavia, non si è per semplice numero di abitanti, per grandezza del territorio o per importanza storica: lo si diventa. Innanzitutto, per la vivacità del proprio tessuto sociale, culturale ed economico. Tanto da fare di quella realtà urbana una protagonista della modernizzazione: esattamente la sensazione che si avverte chiaramente a Tokyo, Londra o New York.

UNA CITTÀ GLOBALE ha bisogno di una governance all’altezza e della capacità di sviluppare e realizzare una visione del proprio futuro. Se l’Italia in generale, paradossalmente la «patria delle cento città», stenta a fare delle proprie realtà urbane attori globali (forse, con la parziale eccezione di Milano), il caso di Roma e della sua area metropolitana svetta per arretratezza. Un’arretratezza che non deriva solo da tutte quelle contraddizioni e nodi irrisolti che caratterizzano la sua storia. Ma dalla mancanza quasi totale della capacità di progettare sistematicamente una visione del proprio futuro mentre si è alle prese con un presente talmente drammatico da rendere cose basilari e essenziali come una rete dignitosa di trasporti pubblici o una raccolta decente dei rifiuti, praticamente utopie.

DUE FATTI SU TUTTI evidenziano, al livello istituzionale, questo «deficit di futuro»: la mancanza a tutt’oggi di un piano di sviluppo strategico per la città metropolitana di Roma, nonostante l’obbligo previsto dalle legge 56\2014 (Legge Delrio). L’enorme ritardo con il quale si sta avviando la nuova fase di pianificazione strategica per Roma Capitale 2020-2030, dopo il sostanziale fallimento del precedente piano strategico, incentrato soprattutto sull’ipotesi della (poi ritirata) candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024.
In questo contesto allarmante si inserisce il libro di Domenico De Masi Roma 2030. Il destino della capitale nel prossimo futuro (Einaudi, pp. 448, euro 20,00), che presenta i risultati di una ricerca previsionale commissionata dalla Camera di Commercio di Roma. Dopo aver ricostruito l’evoluzione storica della città e riproposto i risultati di una precedente indagine svolta nel 2008 sempre sul medesimo tema, il libro passa ad illustrare gli scenari per Roma nei prossimi dieci anni.

Come è costruita metodologicamente l’indagine previsionale? Avvalendosi di una tecnica di ricerca abbastanza nota denominata «metodo Delphi». Vale a dire, tramite interviste sistematiche ripetute in due successivi momenti ad un ristretto gruppo di «esperti», dodici. Davvero pochi se si pensa alla complessità del tema. Oltretutto, come sempre capita nel caso delle indagini Delphi, scelti in modo necessariamente arbitrario, non esistendo ovviamente una lista di campionamento degli esperti o qualcosa di simile.

TENENDO PRESENTI questi limiti metodologici, ai quali deve aggiungersi una certa mancanza di confronto sistematico con quei pochi processi di pianificazione strategica messi in atto dalle amministrazioni capitoline, il volume va letto come un utile e intelligente confronto di opinioni tra persone certamente qualificate, sul futuro prossimo di Roma. I temi trattati sono moltissimi e vanno dalle prospettive economiche al terzo settore, fino ad arrivare al problema dei valori, dei bisogni e finanche delle emozioni pubbliche.
Riassumendo al massimo una tale mole di analisi e considerazioni, il dato più forte che emerge è la necessità di liberare, a tutti i livelli, le grandi potenzialità della città di Roma, in modo da sviluppare quelle sinergie e quelle capacità di «fare sistema» vero nodo gordiano del presente e del futuro della capitale. Gli scenari delineati sono dunque segnati da un cauto ottimismo nella capacità di Roma di mettere in campo questi processi di ricostruzione/costruzione del proprio tessuto connettivo, entro il 2030.

IL GRANDE ASSENTE del libro così come dei (pochi) processi di pianificazione strategica messi in campo dalle istituzioni capitoline o solo abbozzati, continua però ad essere la cittadinanza. In altre parole, in ogni contesto dove la pianificazione strategica ha funzionato essa non è mai stata elaborata attraverso un puro e semplice dialogo tra le élites. Ma attraverso il dispiegamento di processi di partecipazione continua di chi abita e lavora nei territori (si veda il felice esempio di Rimini o di Milano, rimanendo in Italia). Soltanto se politica, istituzioni, associazioni e ricerca sapranno ripartire da questo dato di base, sarà invece possibile colmare il grande deficit di futuro che attanaglia Roma oggi.