Tra le ragioni che fecero del Timeo di Platone il dialogo platonico più letto e commentato dell’antichità, la più nota risiede nella circostanza per cui, intorno al significato da attribuire alla generazione dell’universo in esso descritta, è sorto un dibattito pressoché millenario. A coloro i quali, seguendo Aristotele, hanno sostenuto un’esegesi letterale del racconto cosmologico tale per cui le affermazioni platoniche relative alla generazione dell’universo evocavano un evento reale: la nascita temporale del mondo, si sono opposti ben presto coloro che, come Speusippo, Senocrate e più avanti Plotino, soccorsero Platone optando, di contro, per un’interpretazione didattica del discorso tenuto dal pitagorico di Locri. In accordo a quest’ultima, la temporalizzazione della cosmogenesi è solo un espediente narrativo scelto da Platone per facilitare la comprensione della vera natura del cosmo il quale è nato, ma non nel senso che ha avuto un cominciamento reale nel tempo. La maggioranza dei lettori, infatti, non era in grado di comprendere l’esistenza di una relazione causale che non fosse di natura temporale e, dal momento che il mancato riconoscimento della sussistenza di un rapporto di causalità extra-sensibile avrebbe comportato la negazione della provvidenza divina tout court, Platone avrebbe deciso – è la tesi condivisa da questi autori – di temporalizzare un rapporto in cui, in realtà, la dipendenza è di ordine metafisico.

Che l’universo abbia un principio, perciò, non significa che abbia ipso facto anche un cominciamento nel tempo. E tuttavia, spingendo l’opzione metaforica sino alle sue estreme conseguenze, bisogna per lo meno supporre che neppure sia generato da parte del demiurgo, ossia per mano di quella bizzarra entità cui Platone, nella prima parte del Timeo, affida il compito di creare il cosmo plasmando un sostrato indeterminato e caotico: la Chora. La pur lunga consuetudine con l’idea che vi sia un divin artefice dell’universo non può esimerci, cioè, dal constatare che si tratta, in verità, di una entità filosofica eccentrica rispetto al nucleo dell’ontologia platonica, un’entità che, per giunta, all’improvviso appare e all’improvviso scompare dal racconto sull’origine del cosmo e della vita in esso. Secondo la maggioranza degli interpreti, il demiurgo è solo l’immagine allegorica della causalità delle idee, un’immagine forgiata, ancora una volta, per facilitare coloro che difficilmente si staccano dalla doxa a comprendere un punto altrimenti oscuro: le idee, pur essendo separate dalle cose, ne sono nondimeno causa. Platone, in sostanza, ricorrerebbe al mito del demiurgo per metaforizzare la dimensione intrinsecamente fabbrile delle idee, accennando invece a Chora, il ricettacolo o materia universale, con un ragionamento bastardo a metà tra intelletto e sensazione. Il demiurgo, insomma, non è l’ultima parola di Platone. Questo significa che esce di scena lasciando che la madre-matrice di tutte le cose faccia il suo ingresso per spiegare in che modo nascano i mortali e, così, risolvere il problema formulato già nel Parmenide: la partecipazione delle idee alle cose.

La vita, nel Timeo, nasce quindi due volte: la prima col demiurgo in un istante dato, ma fittizio, del tempo. La seconda con Chora: ciò di cui tutte le cose sono fatte e ciò in cui, fatte e disfatte, vengono ogni volta a trovarsi. Eppure solo la seconda nasce davvero, cioè mai. Che l’universo abbia un principio significa solo che ha una causa e Chora è questa causa primaria, l’elemento ultimo della cosmologia di Platone. Ad essa si accede come in sogno perché il «porta-impronte dell’universo» ha già tutti i caratteri con cui Freud metaforizzerà lo psichico reale. Come l’inconscio, Chora è indifferente al tempo, alla morte e alla contraddizione. Introdotta come terzo genere, la nutrice del mondo presenta un’eccedenza che resiste a tutte le determinazioni binarie e dialettiche. Sicché, essa sembra persino mettere in questione il modello umano della generazione. Vergine e madre al tempo stesso, offerente e ricevente un medesimo corpo, Chora dà luogo senza generare, accoglie senza trattenere e il modo in cui si mescola alle idee, dice Platone «è strano e difficile da concepire». La sua eccedenza, in effetti, si riflette sull’eccedenza dei discorsi: del discorso su Chora e di tutti i discorsi che i personaggi del Timeo intrecciano tra loro e si scambiano come doni. Chora allude a un al di là del gioco del dono e del contro-dono, gioco che, nel suo fondo, è ancora il gioco dei generi: lo scambio delle donne nell’ottica patriarcale della generazione.

Alessandra Campo è relatrice dell’incontro del 18 ottobre su «Miti e riti dell’origine»