Anche nel primo decennio del nuovo millennio Jean-Luc Godard è stato regista d’avanguardia. Eppure non ha smesso di recitare (cinematograficamente parlando) un mantra piuttosto novecentesco, proposto per la prima volta settant’anni fa da Emmanuelle Riva nel film di Alain Resnais (e Marguerite Duras) Hiroshima mon amour: «tu n’as rien vu à Hiroshima». È stato d’avanguardia se si ammette che, nonostante tutto, continuiamo a non aver «rien vu à Hiroshima». E per Godard è proprio questo non vedere Hiroshima che caratterizza la nostra epoca: non siamo ancora usciti dal novecento perché continuiamo ad essere quelli che non riescono a vedere. D’altra parte, i suoi film non hanno la pretesa di aprirci gli occhi. C’è tutto un cinema che si è sviluppato dall’idea che non abbiamo visto abbastanza, che ci mancano delle informazioni, che dobbiamo osservare meglio. È chiaro che per Godard questo cinema non è una soluzione ma parte del problema. È il problema stesso, in effetti, che non è ancora stato visto. E proprio per portarlo alla luce che Godard ha inviato durante gli anni 2010 al festival di Cannes tre film. Il primo è sulla Storia, il secondo sul linguaggio e il terzo sull’immagine. Si intitolano rispettivamente Film-Socialisme (2010), Adieu au Langage (2014) e Livre d’images (2019). In ognuno di questi lungometraggi la storia, il linguaggio e l’immagine sono incollati insieme, come pezzi di un collage. Ogni film parte da un frammento e procede necessariamente verso gli altri, cercando di spingerci a capire cosa faccia ostacolo alla nostra visione. Ci soffermiamo in particolare su Film-Socialisme, il primo capitolo di questo trittico godardiano.

ORA LA FRASE «tu n’as rien vu à Hiroshima» può significare: sei stato ad Hiroshima, eppure non hai visto nulla. È la tragi-commedia del turismo; andare per non vedere, spostarsi per restare tenacemente lontano da ogni cosa e che Godard mette in scena nella prima parte di Film- Socialisme. Il regista sale su un transatlantico Costa Crociere, lo stesso che due anni dopo sarebbe stato protagonista del tragico naufragio al Giglio. Su questa sorta di arca dell’occidente, il film s’imbarca alla volta del secolo breve, quello del socialismo realizzato e caduto. Godard colleziona un numero impressionante di immagini che pure non hanno nulla a che vedere con quelle che in genere chiamiamo immagini storiche (o d’archivio o di ricostruzione) ma che, in una maniera incontrollata, evocano in continuazione la storia, perché forzano la memoria a rimescolare le acque. Questo procedimento è annunciato dalle due inquadrature che aprono pedagogicamente (e pelagicamente) il viaggio: la prima sull’acqua come elemento naturale e nel suo movimento incessante. La seconda ancora sull’acqua ma questa volta rimestata dal motore, ovvero dall’azione umana. Da sempre l’acqua è l’elemento che serve da metafora al concetto di tempo e in effetti Film-Socialisme cerca di definire i tre momenti canonici: l’ora, l’ora non ancora, e l’ora non più – attribuendo ad ognuno un movimento proprio. Il presente, ovvero la prima parte del film è fatto di attesa: l’introduzione ai personaggi e al loro modo di trascorrere (e perdere) il tempo, il viaggio.

E PROPRIO in questo «perder tempo» c’è lo scivolare dell’ora verso il non più. La navigazione attraversa il bacino mediterraneo, il Maghreb, la Grecia. Il presente è al tempo stesso il passato al quale ci rivolgiamo. Ma è anche il «non ancora»: pochi anni dopo, quelle immagini mediterranee di Godard diventano il presente della crisi greca, della primavera araba, del ritorno del fascismo in Europa.
Nel secondo atto di Film-Socialisme Godard si concentra con molta tenerezza sulla figura di un bambino, sembra quasi uno strano autoritratto. Il fanciullo rappresenta il nostro passato cinematografico, vedendolo vengono alla mente i bambini del neorealismo e della nouvelle vague: il piccolo Scaiola di Ladri di Biciclette, il ragazzo che sgambetta tra le rovine di Germania anno zero, il piccolo Leaud dei Quattrocento colpi. Si può pensare anche al Leaud divenuto adulto e mai realmente cresciuto, che agita come in un gioco il libretto rosso nella Chinoise: era il 1967 e Godard metteva in scena dei gruppi in fusione che avremmo visto effettivamente solo dopo, negli anni di piombo. Qualcuno poi si adombrò a causa di quella rappresentazione infantile del rivoluzionario.

MA IN QUEL FILM c’era soprattutto il ritratto dell’arte e della sua rivoluzione, che in qualche caso può fare un passo insieme alla rivoluzione politica (salvo poi rendersi conto che le strade sono solo parallele e mai veramente convergenti). Ora, il problema con Godard non è tanto di esaltare le sue capacità profetiche, che pure sono evidenti e in qualche caso sorprendenti. Si tratta di vedere come i suoi film sono premonitori proprio perché non cercano mai di arrestare il movimento delle immagini ma provano piuttosto a navigarci dentro. Questa sorta di pirateria cinematografica lascia spesso di stucco e frustra lo spettatore in cerca di senso. Godard rappresenta l’umanità che si accalca nella confusione della discoteca della Costa Crociere, o la sua assenza nelle lande desolate dove distributori di benzina sono abitati solo da un mulo. Che cosa vorrà dire?

NULLA OVVIAMENTE. Vuole che le guardiamo, che ci confrontiamo con esse, e con tutte le altre. A queste immagini non serve infatti la cornice del film apocalittico. Esse sono già, nella loro semplicità, un manifesto della nostra incapacità a vedere quello che siamo oggi (e non domani), a vedere la nostra Hiroshima. Film-Socialisme va rivisto avendo bene in mente gli incendi dell’Amazzonia della scorsa estate. O quelli che stanno devastando l’Australia in questi giorni. Tutta la memoria dell’Europa risorge allora in Film-Socialisme. Ma è una memoria che funziona solo se è esercitata al contrario. La vera memoria consiste infatti nel ricordarsi del futuro. Un po’ come le onde che, rifrangendo su sé stesse, si muovono in avanti.

3.continua