La vera finzione del documentario
Venezia 70 Il Leone d'Oro assegnato a Sacro Gra di Gianfranco Rosi, scatena il dibattito su quello che è o non è cinema
Venezia 70 Il Leone d'Oro assegnato a Sacro Gra di Gianfranco Rosi, scatena il dibattito su quello che è o non è cinema
Il film di Gianfranco Rosi è un bel film, poi a qualcuno non piacerà, a qualcun altro piacerà di più come accade con ogni oggetto artistico riuscito, e con ogni premio importante – si tifa sempre per qualcosa che non è detto coincida col Leone o con la Palma o quant’altro assegnati. Tutto il resto è retorica, a cominciare dall’assurdo «dibattito» documentario/finzione che questo Leone ha scatenato. Perché infine parliamo di cinema che è buono o non lo è, che ha talento o non lo ha, e che soprattutto è riuscito o non lo è nel progetto che persegue. Rosi utilizza i suoi strumenti cinematografici per toccare certe zone sensibili dell’immaginario, e lo fa bene, modulando con precisione (insieme a lui c’è Jacopo Quadri) sguardo, tattilità geografica, piacere umorismo in un territorio sconosciuto, che percorre con delicatezza. Sa mettersi all’ascolto, con attenzione estrema di storie sconosciute, dei personaggi e dei luoghi ricreando un mondo fuori dagli stereotipi e, soprattutto da quelle regole di un certo «documentarismo» o «finzione» che vuole solo assecondare lo status quo della (mancanza) di immaginazione.
Alberto Barbera ha rischiato? Sì perché nei grandi festival ciò che appunto viene definito documentario non è in concorso, bandito a Cannes dopo la vittoria di Michael Moore (ma più perché alla critica francese Moore fa abbastanza orrore) – tanto che anche Errol Morris , in gara (e ingiustamente dimenticato) a Venezia a Cannes col suo straordinario The Fog of War era fuori. Anche a Berlino non ci sono ma a Locarno quest’anno ha vinto la prima persona disperata e mozzafiato di un grande regista portoghese quale Joaquim Pinto. Poi sì, sul Lido c’erano capolavori fuori concorso (e forse il vero rischio sarebbe stato metterli dentro) quali At Berkeley di Wiseman, un capolavoro, o Die andere Heimat di Edgar Reitz, e ancora il folgorante Redemption di Miguel Gomes, ma un festival è anche il suo «corpus», vale nella sua interezza…
Quello che il Leone a Rosi ha messo in luce è la possibilità di un cinema pensato (e realizzato) diversamente dal punto di vista produttivo non a caso i migliori registi penso a L’intervallo, divenuto la rivelazione dell’anno, ma anche al molto bello Piccola patria di Alessandro Rossetto negli Orizzonti di quest’anno (vi torneremo) vengono da quel «documentario», cinema a tutto a campo di sperimentazione. Mi chiedo allora se questa idea del documentario come una cosa fuori dal cinema «vero» non sia dovuta a un malinteso, esasperato dalle politiche nostrane, dal fatto che in tv si vedano cose più simili a (banali) servizi giornalistici che al cinema, e che questo sia il format instillato nel senso comune.
Non solo. Rosi declina un cinema internazionale, che disgrega i generi di fiction e non fiction (lo dice già Godard, che ogni film è metà e metà), pensiamo rimanendo in Italia a Le quattro volte di Michelangelo Frammartino, che ha messo da parte l’idea di un solo metodo per fare film da sala. Ora invece ci si interroga ancora sul fatto se certi film siano da festival, come se lo spettatore sia un povero demente privo di gusto, che si deve beccare solo le formulette da sceneggiatura più star a grado zero che tanto piacciono dalle nostre parti.
Forse allora la Mostra numero 70, che è stata un buona Mostra, ha messo in luce un problema sul come si parla di cinema nel nostro paese, almeno a certi livelli (c’è chi ha scritto pure che Godard era passato di moda ai tempi di Prénom Carmen eppure Bertolucci lo premiò). Sul fatto che ormai il chiacchiericcio polemico e strumentale sul vuoto sia la sola leva possibile.
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