Un uomo d’affari di dubbia qualità, clamorosamente ubriaco e visibilmente poco devoto alla sua famiglia viene rapito durante una notte di bagordi e si sveglia in una squallida camera d’hotel dove lo tengono imprigionato sfamandolo a dumplings cinesi – per 15 anni. Era la premessa di Oldboy, iperbolico secondo capitolo della trilogia della vendetta del regista coreano Park Chan-wook, un fiammegginate melodramma adorato da Quentin Tarantino che gli aveva voluto dare anche il Gran Premio della giuria al festival di Cannes del 2004.

La stessa identica premessa sta alla base di questo nuovo Oldboy, diretto da Spike Lee e, dopo l’uscita in USA il week end scorso, in Italia sarà nelle sale da giovedì 5 dicembre, già detentore di un primato: il peggior incasso di Thanksgiving della storia.

A sua volta tratto da un manga giapponese, il nerissimo, stilizzato, film di Park ha esercitato per anni un grosso fascino sulla Hollywood mainstream –persino Spielberg aveva preso in considerazione di farne un adattamento con Will Smith. Alla fine è stata l’etichetta indipendente Film District a spuntarne i diritti, insieme al produttore Roy Lee, che si è costruito una carriera elaborando remake di film di genere asiatici (The Eye, The Grudge, The Ring…. e Infernal Affairs, diventato The Departed di Martin Scorsese) per il mercato occidentale. Violenti, perversi, pieni di ellissi, e formalmente molto raffinati, i film di Park trovano nel meccanismo della vendetta una delle loro maggiori fonte d’ispirazione. Spike Lee lavora su temi completamente diversi e in questo Oldboy si comporta, al meglio, come un regista di commissione –nemmeno troppo interessato a quello che sta facendo. Non a caso, nelle interviste che hanno preceduto l’uscita Usa del film (invisibile ai critici fino all’ultimo momento), l’autore di Brooklyn ha lasciato intravedere problemi con la produzione, che però poi rifiutava di spiegare nascondendosi dietro a un sibillino «this is a tough business», il cinema oggi è un’industria molto difficile. Anche la star del film, Josh Brolin (al posto del grande attore coreano Choin Min-sik) ha rilasciato dichiarazioni monosillabiche sull’argomento. Qualcunque siano stati gli scontri sul montaggio (i pettegolezzi parlando di una versione molto lunga del film bocciata in pieno dai finanziatori), i problemi di Oldboy cominciano dalla sceneggiatura, tutta intesa a rendere più «digeribile» l’indigeribilità sostanziale della premessa.

Dopo aver mandato a picco l’affare che avrebbe potuto salvargli il posto e permettergli di pagare gli alimenti a moglie e figlia di 5 anni, Joe Douchette (Brolin) finisce una maratone etilica notturna tra le braccia di una misteriosa bellezza orientale. Quando si sveglia, crede di essere a letto con lei, ma scopre con orrore di essere solo e praticamente murato vivo in una stanza –il panorama che si vede dalla finestra, una foto incollata sul muro. Spike Lee mette un po’ del suo humor nei venti anni che seguono tra quelle pareti squallide, e durante i quali Joe si disintossica (!), dimagrisce e impara le arti marziali da un programma tv di ginnastica calistenica per signore. Sul piccolo schermo, il prigioniero scopre anche di essere accusato di aver ucciso sua moglie e, tra le news dell’11 settembre e quelle di Katrina, apprende che sua figlia ha una famiglia adottiva e suona il violoncello. Quando un giorno, improvvisamente, si sveglia libero (in un baule abbandonato, come nel film di Park) ha due sole ossessioni: trovare i suoi rapitori e la ragazza. Lo aiuta, in entrambi gli obbiettivi un’infermiera volontaria (ex tossica) interpretata da Elizabeth Olsen.

Chi ha visto il film originale riconoscerà un ammiccamento alla famosa indigestione da polpo e una versione dal budget potenziato ma molto meno bella della mitica scena ininterrrotta in cui il protagonista massacra una banda di assalitori a colpi di martello. Samuel Jackson, con cresta di capelli platinata, e Sharlto Copley sono il carceriere e il mandante della prigionia di Joe. Ma la loro presenza ha una dimensione più camp che autenticamente sinistra. Per chi non ha visto il film originale o ne conosce il sottofondo della storia, sarebbe ingiusto raccontare di più. Per chi invece se lo ricorda, per spiegare l’entità del tradimento, basta dire che l’ultima, sconvolgente, scena nella neve, quella che sprofonda il film nella sua magnifica vertigine melò, in questa versione non c’è più.