Alla fine degli anni ’90, dopo un seminario del neurobiologo statunitense Ben Barres, uno degli scienziati nel pubblico commentò: «Ottimo seminario, Ben è più bravo di sua sorella Barbara». Peccato che Barbara e Ben fossero in realtà la stessa persona: pochi mesi prima, Ben Barres aveva infatti cambiato sesso, abbandonando il nome femminile ricevuto alla nascita e quel collega non ne era al corrente. Grazie a molte scoperte fondamentali realizzate nel campo delle neuroscienze, nel 2013 Barres divenne il primo scienziato transgender ammesso alla prestigiosa Accademia Nazionale delle Scienze.
L’aneddoto dimostra come, anche in ambito scientifico, i pregiudizi di genere influenzino la valutazione delle scoperte scientifiche. Se non fosse morto alla fine del 2017 a soli 54 anni, il neuroscienziato sarebbe oggi la persona ideale per raccontare i pregiudizi contro cui combattono le ricercatrici per sopravvivere nella comunità scientifica. Fortunatamente, lo fece in un gustoso racconto autobiografico nel 2006 su Nature: «chi non sa della mia transessualità mi tratta con molto più rispetto – scrisse – ora riesco persino a finire una frase senza essere interrotto da un uomo».

Mix di fattori anti-femminili
Le discriminazioni di genere, in realtà, vanno molto al di là delle buone maniere e sono certificate dai dati. Ad esempio, come peraltro in tutti i settori del mondo del lavoro, anche nella ricerca scientifica le donne sono pagate meno degli uomini, con una differenza del 20-25% in tutto il mondo. Inoltre, nella comunità scientifica le donne sono una minoranza. Secondo un rapporto dell’Unesco del 2018, la percentuale di donne tra i ricercatori è solo del 29%, a livello planetario. Come ogni media, questo valore non dà conto delle notevoli variazioni globali. In America latina (45%) e Asia centrale (48%) l’equilibrio tra donne e uomini è quasi raggiunto. In Europa, si va dal 51% di ricercatrici donne della Lettonia ai casi negativi di Olanda, Francia e Germania, tutte sotto il 30%. Va appena meglio in Italia, dove le donne rappresentano il 36% della comunità scientifica.

Anche in Asia la situazione è molto variegata. Spiccano India, Bangladesh e Giappone in cui le donne sono meno del 20% della comunità scientifica; ma si registrano anche casi singolari come quello del Myanmar, dove oltre l’80% del personale accademico è donna. La variabilità della partecipazione femminile alla ricerca scientifica rispecchia l’eterogeneità dei motivi che allontanano le donne dalla scienza. Una scienziata si scontra con difficoltà di vario genere: discriminazioni culturali, squilibri nell’organizzazione familiare, assenza di un sistema di welfare efficace, stereotipi di genere. Ciascun paese presenta un mix diverso di questi fattori. Per chi si occupa di aumentare la partecipazione femminile alle attività di ricerca da un punto di vista militante o istituzionale, è fondamentale individuare i fattori più rilevanti e stabilire le strategie di intervento più appropriate.

L’opinione diffusa, invece, è che la discriminazione sia una questione piuttosto semplice: a parità di bravura, gli uomini vengono preferiti alle donne al momento di sostenere un esame o di vedersi assegnare una cattedra universitaria. Anche se questo tipo di discriminazione è tuttora molto diffuso, non è quello più radicato e difficile da estirpare. In realtà, secondo molte ricerche la minaccia più sottile per l’uguaglianza di genere è nascosta e prende il nome di «distorsione implicita». Si tratta dell’insieme di prassi nei laboratori o nella società che, pur non essendo palesi scorrettezze, rendono la vita più difficile a una ricercatrice donna rispetto a un uomo.

Sessismo sommerso
È un problema che si pone ogni volta che si esamina il curriculum di due candidati di sesso diverso. Anche se i curriculum fossero valutati nel modo più equo, probabilmente il divario di genere non sparirebbe. Perché per ottenere gli stessi risultati scientifici molto spesso una donna deve lavorare di più, per conciliare la gestione familiare (che ricade maggiormente sulle madri), per affrontare un ambiente di lavoro sessista o per farsi assegnare finanziamenti per le proprie ricerche. Come si vede, rimediare a queste discriminazioni «sommerse» è molto più complicato che garantire la trasparenza nei concorsi con regole più o meno stringenti. Lo conferma anche una recente ricerca delle statunitensi Erin Cech e Mary Blair-Loy appena pubblicata sulla rivista Proceedings of the National Academies of Sciences, secondo cui quasi la metà delle scienziate statunitensi abbandona la carriera dopo la nascita di un figlio.
La complessità delle disparità di genere è testimoniata anche da un paradosso: la percentuale di laureate nelle materie scientifiche è più elevata nei paesi in cui la condizione della donna è peggiore. In Arabia Saudita, Algeria, Tunisia, tra i laureati in materie scientifiche la percentuale di donne è quasi doppia rispetto ai paesi scandinavi, alla Francia e alla Germania.
Per Gijsbert Stoet e David Geary, i ricercatori che hanno messo in evidenza questi dati sorprendenti in una indagine del 2018, l’assenza di protezione sociale spinge le donne verso percorsi di studio più redditizi come l’informatica o l’ingegneria. Attenzione: sarebbe un errore affermare che il divario di genere sia una conseguenza dell’equità, perché «correlation is not causation». Semmai, il paradosso dimostra che non si può ridurre le disparità di genere a una questione di «quote rosa».

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SCHEDA

IL DIVARIO ITALIANO. Secondo i dati dell’Unesco del 2018, la percentuale di donne nella comunità scientifica in Italia è del 36%. La tendenza è confermata dai dati sulle università: se si sommano assegniste di ricerca, ricercatrici, professoresse associate e ordinarie, si arriva al 40% del personale complessivo. Questa percentuale nasconde situazioni assai diverse. Se tra gli assegnisti di ricerca (i ricercatori più precari) il divario di genere è praticamente nullo, ai livelli gerarchici più elevati le donne sono rare. Tra gli ordinari, ad esempio, sono solo il 23% del totale. Anche tra un settore e l’altro si osservano grandi differenze. Le professoresse ordinarie sono solo il 9% in informatica, il 12% in fisica, il 15% in medicina. L’interpretazione di questi dati non è così immediata. Queste percentuali dipendono in primo luogo dallo stereotipo secondo cui la scienza è roba da maschi. Le donne che scelgono un percorso di studi scientifico sono ancora una minoranza, circa il 40%. Si tratta però di una delle percentuali più alte in Ue: solo in Polonia c’è più equilibrio. La media Ocse è del 31%, paesi «avanzati» come Germania o Giappone viaggiano invece sul 20%.
Dopo la laurea, donne e uomini in Italia mostrano la stessa propensione alla ricerca. Infatti, la percentuale femminile tra assegnisti e ricercatori precari, i gradini più bassi della gerarchia della comunità scientifica, è del 39%, praticamente la stessa delle lauree scientifiche. Il drastico calo, fino a dimezzare mediamente la presenza femminile tra i docenti ordinari, nasce dunque dalla difficoltà di sopravvivere in una comunità da sempre dominata dai maschi. Il caso delle scienze mediche è eclatante: mentre a inizio carriera le donne rappresentano il 72% degli assegni di ricerca, tra i professori ordinari sono solo il 15%.