«Quello che è accaduto nell’ultima settimana è grave – afferma Giuseppe De Nicolao, docente di automatica all’università di Pavia e redattore della rivista Roars – La classifica dei buoni e dei cattivi stilata dall’Anvur, con tanto di bollini verdi e rossi, vedere quali atenei meritano più o meno risorse si è risolta in un esercizio di scuola. Se come loro stessi ammettono la valutazione spetta al ministro e non può essere derivata dai dati a disposizione, che senso ha fare una lista degli atenei canaglia e di quelli virtuosi?»

Qual è la ragione di questo polverone?
Io credo che non si possano paragonare le mele con le pere, cioè atenei grandi medi e piccoli. Infatti la stessa Anvur ha stabilito tre classifiche diverse. La definizione di cosa è medio piccolo o grande diventa determinante per sapere chi vince e chi perde in questa gara. Ai giornalisti è stato fatto credere di avere a disposizione classifiche con alto grado di affidabilità. È stato detto che questa è l’indagine migliore mai fatta in Italia. Poi, ad un’attenta analisi, si è scoperto che dietro la valutazione esistono problemi politici e epistemologici grandi quanto grattacieli. Ma qui è inutile mobilitare queste categorie: siamo a livello dei giochi con i numeri. Queste simulazioni assomigliano a un romanzo di Philip Dick dove ci sono tanti universi possibili. Gli atenei messi alla gogna hanno subito un danno reputazionale, senza contare che la scelta delle future matricole o dei dottorandi può essere stata condizionata.

Che cosa è in gioco nella valutazione della ricerca e degli atenei?
La narrazione sulla ricerca in Italia. Fino a ieri abbiamo creduto che ci fosse un racconto oggettivo su chi è il bravo e il cattivo. Oggi abbiamo capito che la realtà non si lascia facilmente catturare da classifiche semplificatorie e tutto viene demandato al ministro. L’Anvur non ha detto cose sbagliate, ma è stata smascherata. Chi prima cantava le lodi della meritocrazia, oggi ammette che non bisogna fidarsi dei numeri.