A oriente di Eden, dice il verso 16 del quarto libro della Genesi. Caino si allontanò dal Signore e abitò nel paese di Nod, a oriente di Eden. East of Eden, come si intitola in origine il ponderoso romanzo di John Steinbeck. Nel metterne in scena l’imponente adattamento teatrale, due parti che si vedono in serate diverse o in una lunga maratona di sette ore, Antonio Latella ha scelto di mantenersi fedele al titolo un po’ fuorviante con cui il romanzo è conosciuto nel nostro paese, La Valle dell’Eden. Ma non c’è dubbio che al centro del lavoro (produzione di Ert insieme a Metastasio di Prato e stabile dell’Umbria, dopo la prima felsinea stasera 19.30, domani 16.30 (I atto) e 20.45 (II atto) al Metastasio di Prato) c’è proprio quel grumo cruento del racconto biblico. Luce accesa in sala, come a dire che ci stiamo dentro tutti nel paese a est dell’Eden dove la progenie di Caino è stata cacciata, dopo l’uccisione del fratello Abele. Quando vi entriamo i protagonisti sono già lì, immobili, seduti attorno al tavolo che funge da simulacro della vita familiare.

A DISTANZA di qualche anno il regista napoletano torna a confrontarsi con la fascinazione del «grande romanzo americano», l’epopea familiare che si sovrappone alle vicende storiche fino a prenderne il posto; allora era quel Via col vento di Margaret Mitchell celebre soprattutto per la versione cinematografica. Ma il clima è decisamente mutato. A quel mondo tutto femminile, con il suo immaginario pop, si è sostituito quello maschile incardinato sul dio della Bibbia. Violento e geloso. La donna, quando comparirà, non può che incarnare la perdizione, il peccato originale – anche se Latella introduce una figura femminile (Candida Nieri) a dar corpo a una sorta di voce fuori campo, forse la voce dell’autore che cerca di guardare dall’esterno i suoi personaggi.

SCOMPAGINANDO l’ordine del romanzo, la drammaturgia firmata da Latella insieme a Linda Dalisi rimette in fila la cronologia della vicenda. La saga familiare che si dipana dalla guerra civile americana alla prima guerra mondiale. All’inizio siamo ancora a est, in una fattoria del Connecticut, attorno a quel tavolo siedono i maschi residui della famiglia Trask. Due fratelli, Charles e Adam (sono Christian La Rosa e Annibale Pavone); il padre non c’è più ma è ancora lì, presenza muta, a dividerli. Charles lo amava, il padre, che però gli preferiva l’altro, scappato di casa in cerca di avventure. E la lite scoppia al ricordo della diversa accoglienza che avevano avuto i loro regali di compleanno. Il ricalco biblico è trasparente, e si replicherà con i due figli di Adam, Caleb e Aaron, quando ormai la vicenda si è trasferita a ovest, nella valle percorsa dal fiume Salinas, al centro della California. Come se il conflitto fra Caino e Abele, l’agricoltore e il pastore di greggi, da metafora del conflitto fra la civiltà stanziale e quella nomade si dilatasse a imprinting della storia dell’umanità.

MA INTANTO quel che sembra un sipario di ferro è calato fin sopra il tavolo, separando lo spazio dell’azione visibile da un di là di cui si scorge solo la parte inferiore ma da cui vengono di continuo tratti fuori vassoi colmi di tazze o bicchieri – e si sfalderà rumorosamente al termine della prima parte. E sulla scena è apparsa la demoniaca Cathy (Elisabetta Valgoi) che si dà a entrambi i fratelli e partorisce pietre prima di scappare a gestire un bordello. Nella seconda parte il tavolo non c’è più, sul palco viene srotolato un tappeto erboso su cui poi scende lo scheletro metallico della casa che è anche visibilmente una gabbia. Adam è rimasto per tutto il tempo seduto sulla sua sedia, inchiodata a palco, voltando le spalle alla platea – e quando alla fine si rialzerà sarà come se entrasse in scena un personaggio nuovo.

MA NUOVA è soprattutto la vicenda parallela di Samuel Hamilton (Michele Di Mauro, bravissimo), dietro cui si cela il nonno di Steinbeck immigrato dall’Irlanda, a confronto con il filosofico servitore di origini cinesi (Massimiliano Speziani), impegnato in un’avventurosa esegesi di quei versi biblici. E non è un caso che un lavoro fondato sulla parola, e sulla volontà di sottrarla alla letteratura, culmini in una parola. Timshel. Tu puoi, s’intende dominare il peccato. Non l’imperativo delle traduzioni canoniche. Nel segno di una libertà da conquistare faticosamente.