Lo scontro tra Italia e Europa prosegue più teso che mai, senza che si intraveda nessuna soluzione possibile. L’ennesimo shock, del tutto previsto, arriva con le stime d’autunno della Ue, diffuse ieri da una commissione europea sul piede di guerra. La distanza da quelle italiane è siderale. Per quest’anno l’aumento del rapporto deficit Pil è minimo: dall’1,7 all’1,9%. Ma per l’anno prossimo il salto è più rilevante. A manovra invariata si tratterebbe non del 2,4 ma del 2,9% e l’anno seguente si infrangerebbe di un decimale il muro del 3%.

NESSUN MIGLIORAMENTO sul fronte del debito pubblico, stabile nel triennio al 131% del Pil, ma la Ue prevede invece una precipitazione dell’indicatore considerato il più importante, quello del deficit strutturale: un balzo, nel 2019, dall’attuale 1,8% al 3% e poi un altro, nel 2020, sino al 3,5%. Drastico anche il ridimensionamento delle previsioni sulla crescita: non l’ambizioso 1,5% previsto da Roma ma l’1,2%. E’ l’ennesima conferma di una bocciatura senza appello della legge di bilancio, dovuta alla completa sfiducia nelle cifre squadernate dal governo gialloverde.

Nell’introduzione viene aggiunta una nota persino più preoccupante. «In alcuni Paesi e soprattutto in Italia – scrive infatti Marco Buti, direttore generale per economia e finanza della commissione – il circolo vizioso tra banche e debito sovrano potrebbe riemergere in caso di dubbi sulla qualità e sostenibilità dei conti pubblici». Si tratta della minaccia di una crisi del sistema bancario italiano a fronte di un permanere cronico dello spread in zona 300 punti. In parte si tratta di una di quelle profezie destinate a realizzarsi per il solo fatto di essere pronunciate. Anche ieri, appena rese note le previsioni europee, il differenziale è tornato a correre arrivando a ridosso di quota 300.

Come se non bastasse, è arrivato anche l’Fmi. Lo stress dei titoli italiani è per ora contenuto ma permane «una consistente incertezza». Pertanto, «il contagio potrebbe essere notevole». Se a tutto ciò si somma l’esito disastroso della riunione Ecofin, dove 18 paesi hanno fatto muro contro l’Italia e dove il presidente della Bce Draghi è andato giù durissimo affermando che un Paese nelle condizioni dell’Italia dovrebbe andare oltre le stesse regole europee quanto a rigore, si capisce fino a che punto sia ardua, per non dire impossibile, la missione di Tria, incaricato di convincere un’Europa che non è convincibile. Oggi il ministro vedrà a Roma il presidente dell’Eurogruppo Centeno. Si sentirà ripetere che il fronte degli altri Paesi dell’Eurozona è compatto e reclama una rilevante revisione della legge di bilancio.

MOSCOVICI LO HA RIPETUTO anche ieri. Nessun compromesso è ipotizzabile: «Se l’idea è quella di incontrarsi a metà strada, non vedo come ciò sia possibile». Il commissario all’Economia indica, tra le righe, una via d’uscita, la stessa già prospettata a Tria a Bruxelles due giorni fa: «Quando un Paese subisce catastrofi naturali la commissione è pronta a tenerne conto, esattamente come ha fatto in passato. Ma bisogna agire nel quadro delle regole: non può esserci un negoziato». L’Italia modifichi sensibilmente i conti e la manovra, poi chieda flessibilità impugnando l’alluvione e il crollo del ponte di Genova e la commissione, accettando la resa, qualcosa concederà.

È una condizione che il governo gialloverde non può accettare. Le repliche di Tria e Conte sono durissime. «Non ci sono i presupposti per mettere in discussione la fondatezza e la sostenibilità delle nostre previsioni. Per questo riteniamo assolutamente inverosimile qualsiasi altro tipo di scenario sui conti pubblici italiani», recita una nota di palazzo Chigi insolitamente bellicosa. Tria va anche oltre. Parla addirittura di «défaillance tecnica della commissione». Bolla le previsioni europee come frutto di «un’analisi non attenta e parziale». Conclude, in linea con il premier, ribadendo che «il Parlamento ha autorizzato un deficit massimo del 2,4% che il governo, quindi, è impegnato a rispettare».

SONO PAROLE, quelle adoperate dall’una come dall’altra parte, che non lasciano spazio ad alcun dialogo. Il capo dello Stato cerca, come fa da settimane, di riaprire uno spiraglio con un discorso in cui ricorda che «abbiamo assolutamente bisogno di ispirare fiducia: le imprese lo sanno». Ma probabilmente a questo punto non si illude più nemmeno lui. Il 21 novembre, salvo lieve rinvio, verrà avviata la procedura d’infrazione. Si concretizzerà a gennaio. Potrebbe essere molto pesante.