La Turchia “paese sicuro” è invischiata nella stessa guerra di Siria e Iraq
Medio Oriente In 5 anni 654 morti in stragi terroristiche, eppure Ankara si finge fuori dal conflitto. L'Isis - foraggiato per anni dai vertici turchi - colpisce Istanbul come colpisce Damasco e Baghdad, costruendo una nuova strategia che lo rende "invisibile"
Medio Oriente In 5 anni 654 morti in stragi terroristiche, eppure Ankara si finge fuori dal conflitto. L'Isis - foraggiato per anni dai vertici turchi - colpisce Istanbul come colpisce Damasco e Baghdad, costruendo una nuova strategia che lo rende "invisibile"
Nei giorni precedenti al terribile attacco all’aeroporto Ataturk di Istanbul, in Medio Oriente si continuava a morire per mano dello Stato Islamico. Si moriva in Yemen dove martedì in sette attacchi, uno dietro l’altro, kamikaze e bombe hanno ammazzato 45 persone a Mukallah, città fino a pochi mesi fa feudo della rivale al-Qaeda. Si moriva in Iraq ad Abu Ghraib, a metà strada tra Baghdad e Fallujah, dove un kamikaze è saltato in aria in una moschea sunnita togliendo la vita a 12 persone.
E mentre a Istanbul il bilancio dei morti saliva, in Siria nel mirino islamista tornavano i kurdi di Rojava: ieri un’auto imbottita di esplosivo è entrata a Tal Abyad, liberata dalle Ypg nel luglio 2015, e ha ucciso 10 persone. Il giorno prima era toccato alla martoriata città di Deir Ezzor, per metà occupata dall’Isis: missili hanno ucciso 4 civili. Un ininterrotto elenco di carneficine che stupisce poco il mondo dell’informazione perché Yemen, Siria, Iraq sono in guerra. Sono in preda a conflitti palesi.
Ma anche la Turchia lo è. Va sfatato il mito del “paese sicuro” che piace all’Europa delle porte sbarrate ai rifugiati: Ankara è in guerra come lo è il resto del Medio Oriente, guerra di cui è principale protagonista. Se prima quel conflitto era combattuto contro Damasco, oggi il nemico è quello che i turchi hanno fatto prosperare e che – messo alle strette negli altri teatri bellici – come una scheggia apparentemente impazzita colpisce l’Europa e la sua periferia. Non a caso Ankara oggi cerca di vincere l’isolamento in cui si è infilata da sola, ricucendo le relazioni con Israele e Russia (necessari a coprire il fabbisogno di gas naturale e ad evitare la fuga dei turisti stranieri) e tentando lo stesso con l’Egitto.
Negli ultimi 5 anni in Turchia sono morte 654 persone in stragi imputabili a gruppi islamisti. Eppure Erdogan è ancora al suo posto. Ankara, Istanbul, Diyarbakir, Cizre sono preda di un unico conflitto acceso dal governo turco: nelle due capitali, quella istituzionale e quella culturale, a colpire sono cellule del gruppo islamista foraggiato per anni; a sud est è l’esercito turco che ha imbastito una campagna interregionale contro i kurdi camuffandola da operazioni anti-Isis.
Sono passati due anni da quando lo Stato Islamico, già attivo da quasi un decennio, si è fatto conoscere ai più occupando un terzo di Siria e un terzo di Iraq e con video hollywoodiani in cui ostaggi con tute arancioni alla Guantanamo venivano sgozzati in diretta tv. In due anni molto è cambiato: la coalizione internazionale, poco interessata a frenare l’avanzata islamista e molto di più a sbarazzarsi del governo Assad, ha dovuto fare leva su gruppi molto più efficaci, come i peshmerga o le Ypg kurdo-siriane.
Quando l’Isis si è trasferito fuori dai confini del “califfato”, a Parigi contro la redazione di Charlie Hebdo, i leader della coalizione (gli Stati Uniti) hanno pensato fosse necessario cercare l’appoggio degli avversari per contrastare il “califfo”: Russia e Iran. Ieri il segretario di Stato Usa Kerry ha ribadito l’utilità di Teheran contro la minaccia comune, visti anche i risultati ottenuti in Iraq con le potenti milizie sciite che controlla.
Sul terreno, invece, Washington ora fa muovere il New Syrian Army, gruppo di ribelli siriani messo in piedi dalla Cia a novembre. A differenza di altre opposizioni vicine all’Occidente che evitano lo scontro con l’Isis, il Nsa ha lanciato in questi giorni una controffensiva contro lo Stato Islamico ad Albu Kamal, al confine tra Siria e Iraq, coordinandosi con l’esercito di Baghdad.
Ma ormai il mostro, ingrassato dagli alleati regionali dell’Occidente e da un moderno sistema di propaganda, ha dato vita ad una strategia difficilmente monitorabile: con il ritorno – almeno parziale – degli eserciti nazionali, gli islamisti hanno capito di dover mettere da parte le ambizioni amministrative, quanto meno temporaneamente, e agire con attacchi terroristici nelle zone non occupate (da Baghdad a Damasco, dal Sinai egiziano al cuore di Istanbul), oscura presenza difficilmente rintracciabile ma che attirare adepti.
L’Isis si ha modellato sui cambiamenti occorsi nel “califfato”, il corridoio che nella propaganda messianica del leader al-Baghdadi corre da Aleppo a Diyala, dall’ovest siriano all’est iracheno. La perdita di Palmira o Fallujah, così, non smantella i piani strategici islamisti perché non mette in pericolo la capacità di disgregare gli Stati-nazione coinvolti. Dopotutto lo Stato Islamico è prodotto di decenni di guerre, invasioni esterne e interessi internazionali.
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