Con la Siria in fiamme un nuovo fronte minaccia di aprirsi in Medio Oriente: le tensioni politiche tra Turchia e Iraq hanno raggiunto livelli pericolosi per la coalizione anti-Isis. Baghdad, dopo aver ribadito la richiesta di ritiro delle truppe turche dalla base nord-occidentale di Bashiqa e aver convocato l’ambasciatore di Ankara, ha chiesto l’intervento del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Ma i 250 soldati turchi, i 25 carri armati e l’artiglieria pesante sono ancora in territorio iracheno (tanto più dopo che il parlamento ha esteso di un anno il mandato al governo per dispiegare truppe all’estero), ufficialmente per addestrare i combattenti peshmerga.

Così in meno di un anno Ankara ha poggiato gli stivali in Siria e in Iraq, in entrambi i casi nascondendosi dietro l’Isis. In realtà lo Stato Islamico non è nel mirino dell’esercito turco: nel nord della Siria l’obiettivo è spezzare l’unità kurda in Rojava; in Iraq distruggere il Pkk con l’aiuto del Kurdistan iracheno e impedire che il paese resti un’entità unita.

Tutto si svolge in poche centinaia di km: tirando una riga dritta da Mosul si arriva a Sinjar – dove si è palesato lo scontro tra Pkk e Ypg da una parte e peshmerga dall’altra – e da lì a Rojava il passo è brevissimo.

E se gli Stati Uniti vestono i panni di Pilato limitandosi a far intervenire il portavoce della coalizione Dorrian con un mero «la Turchia ha fatto tutto da sola», ad alzare la voce sono le Unità di Mobilitazione Popolare. Ovvero quelle milizie sciite che sul piano militare portano avanti la lotta all’Isis e su quello politico sono strettamente legate all’Iran che non guarda di buon occhio l’interventismo turco: i leader delle potenti brigate Badr, Asaib Ahl al-Haq e Hezbollah-Iraq minacciano di attaccare i soldati turchi, definiti «forze di occupazione», se interverranno a Mosul.

Le minacce arrivano in un momento cruciale: la controffensiva su Mosul, da tempo annunciata, potrebbe essere lanciata a breve, entro ottobre secondo quanto riportato da fonti governative. Le truppe governative avanzano verso il cuore della provincia di Ninawa, mentre le organizzazioni umanitarie si preparano ad affrontare un nuovo flusso di massa di sfollati, un milione di persone.

Non a caso ieri il ministro degli Esteri turco Cavusoglu ha definito la partecipazione delle milizie sciite nell’operazione su Mosul una mossa controproducente: «Coinvolgere questi gruppi non porterà la pace, al contrario incrementerà i problemi regionali». Che in Iraq quelle milizie si siano macchiate di gravissimi abusi contro le comunità sunnite liberate dal giogo islamista è un dato di fatto, frutto dell’incapacità del governo di Baghdad di gestirle.

Ma la Turchia, in mente, non ha la salvaguardia della popolazione di Mosul: lo scopo è avere voce in capitolo nella più importante controffensiva del paese e nel suo futuro, che condivide con la Casa Bianca e il Golfo. La divisione in chiave settaria dell’Iraq: una regione kurda, una sunnita e una sciita.