Tornando a Tunisi da Parigi Selma (Golsifteh Farahani) compie quel viaggio davanti al quale mette i propri pazienti, sdraiati o seduti sul suo improvvisato divano da psicanalista: verso il passato, l’infanzia, la famiglia e le sue dinamiche, l’influenza dei costumi sociali di un paese sulla formazione di una persona nella più tenera età.

La protagonista di Un divano a Tunisi di Manèle Labidi – presentato l’anno scorso alle Giornate degli Autori di Venezia – torna nel paese dove è nata proprio per fare la psicanalista, contro le obiezioni di tutti coloro che tacciano di follia la sua scelta di esercitare la professione in Tunisia – proprio lei, donna dai costumi e la formazione europea, ostile per giunta all’idea del matrimonio. Eppure molto presto davanti alla sua porta si crea una lunga fila di pazienti: dalla parrucchiera naturalmente chiacchierona al panettiere che lotta con la propria omosessualità e la notte sogna Putin.

Un movimento incessante di persone che si riflette in quello a cui è costretta la stessa Selma per ottenere dal Ministero della Salute l’autorizzazione per esercitare la psicanalisi.

LA TUNISIA raccontata dal film è quella all’indomani della primavera araba e dell’esilio di Ben Ali, un Paese al crocevia fra il passato e una nuova libertà con tutti i suoi pericoli: sul divano di Selma così come nella commedia adi Labidi si agitano le contraddizioni di una società, i suoi tabù, i «traumi» da elaborare – a volte incorrendo nel rischio della macchietta, mentre proprio il mondo interiore di Selma si perde sullo sfondo, ingoiato da una galleria di personaggi in cui la protagonista cerca il senso del proprio agire, il rapporto con le sue radici di donna anche lei al crocevia fra due mondi e determinata a non cedere a ciò che ci si aspetta da lei.