Sulla parabola renziana nel Pd, D’Alema, nei saluti di fine anno ai compagni di Articolo 1, ha usato parole financo riduttive, definendola una «malattia». Una malattia è qualcosa che accade a un organismo, mentre l’Opa ostile del gruppo di potere raccolto intorno all’allora sindaco di Firenze fu qualcosa di molto diverso.

Il tribunale di Firenze accerterà se attorno alla fondazione Open furono commessi reati, politicamente si può dire (e da tempo) che ci fu il tentativo di trasformare il partito italiano che fa riferimento alle socialdemocrazie europee in una forza liberale di centro, equidistante tra destra e sinistra, decisamente schierato contro il mondo del lavoro salariato e a favore del padronato più spregiudicato: una sorta di trasfusione totale, avvenuta su un corpo nato già gravemente infragilito e privo di una robusta spina dorsale innervata di valori di sinistra e laburisti. Malattia guarita con l’addio di Renzi? Niente affatto.

Detto questo, il prossimo venturo rientro tra i dem di D’Alema, Bersani e Speranza sollecita ben altri interrogativi per chi ha a cuore il destino della sinistra italiana. La scissione di Art.1, nel febbraio 2017, non ha mai chiarito un interrogativo di fondo: era il Pd in quanto tale, nato nel 2007 in una temperie post ideologica e blairiana, a essere inadeguato come casa per la sinistra o la scissione fu solo una reazione al renzismo, dunque a una segreteria protempore? Fu l’avvio di un progetto politico di sinistra come la Linke di Lafontaine contro Schroeder o una scialuppa per un pezzettino di ceto politico?

I fatti di questi giorni ci dicono che, evidentemente, in quei mesi del 2017 prevalse più l’insofferenza per la corte renziana (che peraltro si avviava rapidamente al capolinea dopo il rovescio del referendum) che un giudizio ragionato sulla natura del Pd. E che il progetto di una forza a sinistra del Pd, se mai c’è stato all’inizio, è subito naufragato in una lunga agonia priva di azione e proposta politica.

Non a caso Art.1, subito dopo il magro risultato di Leu alle politiche del 2018 (3%), ha sostanzialmente abbandonato il progetto di costruzione di una forza di sinistra autonoma con Sinistra italiana e gli altri partner della lista, per consegnarsi a uno stato di inerzia, un lunghissimo limbo. Alle europee del 2019, dopo che Zingaretti aveva conquistato il Pd, alcuni esponenti di Art.1 (a partire dall’attuale sottosegretaria Cecilia Guerra) sono entrati nelle liste dem, nel nome della comune appartenenza al gruppo socialista, tanto che Bersani ha fatto campagna elettorale per il Pd pur senza mai nominarlo. Poco dopo Speranza (segretario del partito) è stato nominato ministro della Salute del Conte 2 in quota Leu, soggetto esistente solo nelle aule parlamentari e non nella realtà.

Da allora questa ambiguità è proseguita per due anni e mezzo, nei quali è stata coniata la brillante definizione di «sinistra sanitaria» a indicare che la vera ragione sociale del piccolo partito era difendere la postazione ministeriale del segretario (diventata centrale col Covid), anche nel passaggio da Conte a Draghi. Accanto a questo il partito si è segnalato per un contismo sfrenato e sostanzialmente acritico, sconosciuto nei 5Stelle, tanto che all’inizio del 2021 era stato ipotizzato l’ingresso della truppa nel partito di Conte, progetto mai decollato. Di qui l’idea, sempre rimasta in sottofondo dal 2019, di un ritorno nel Pd, facilitato in questi mesi dalla segreteria di Letta, amico fraterno di Bersani.

In questi cinque anni, dunque, mentre Bersani e D’Alema hanno sviluppato interessanti analisi sui gravi limiti della terza via e sul ruolo della sinistra in piena crisi della globalizzazione, il loro partito è rimasto sostanzialmente inerte. Impedendo qualsiasi fioritura a sinistra del Pd. Dal matrimonio, potenzialmente fecondo, tra il cuore della ditta diessina e gli eredi di Vendola non è nato nulla, nonostante l’impegno di migliaia di militanti di Art.1 e di un pugno di dirigenti, a partire da Arturo Scotto, che si è caricato sulle spalle tutto il peso della gestione del partito.

Ma quale progetto e quale azione politica può svolgere un piccolo partito di sinistra che non sa cosa vuole fare da grande? L’idea di un «big bang,» di una sorta di reset anche del Pd per dare vita a una grande forza socialista e di sinistra (evocata mille volte da Bersani) si è rivelata un’illusione: il Pd, «amalgama mal riuscito» secondo D’Alema, partito ircocervo ancora popolato da truppe renziane, si è tuttavia rivelato con Zingaretti e Letta l’unico pilastro rimasto in piedi nel centrosinistra, certamente irrobustito dall’uscita di Renzi e dei suoi pretoriani.

A sinistra invece mai come oggi il panorama è stato così devastato, pur in presenza di una acuta crisi sociale che richiede idee e azioni ben più radicali di quelle di Letta. In questo quadro il problema non è definire il renzismo una «malattia». Parole di verità dai dirigenti di Art.1 si vorrebbero sentire sulle ragioni del fallimento della scissione, sul naufragio della Linke italiana, sulle ragioni (e le responsabilità) per cui a sinistra del Pd il campo è desertificato.