«Grazie Zerocalcare, ogni volta mi riveli qualcosa di nuovo su me stessa». Recita così uno dei 240 commenti che accompagnano l’uscita dell’ultima storiella del fumettista romano, uscita la settimana scorsa sul suo blog e da qui sparata in rete verso migliaia di account Facebook. Si intitola Il demone dell’inadempienza, mette in scena la nevrosi da lavoro creativo precario in scadenza di consegna e arruola alla bisogna i tormentoni che i fan di Zerocalcare hanno imparato a conoscere bene: Guerre stellari, Walt Disney, la mamma disegnata come Lady Cocca, l’amico armadillo, un avvoltoio saccente a impersonare la coscienza (ma questa può indifferentemente incarnarsi in Voltaire o Vandana Shiva), la satira della vita in Rete e la fissa per i telefilm americani. Giungendo alla conclusione che «alla fine non ti devi godere mai un cazzo».

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Zerocalcare è Michele Reich. Ma, forse, è quasi più vero il contrario. «Io cerco sempre di raccontare la mia parzialità – ironizza ai tavolini di un bar di San Lorenzo – E siccome facciamo tutti delle vite miserabili s’è creato questo meccanismo di identificazione che è stata un po’ la fortuna mia e dei miei libri». Come se Zerocalcare, azzardo, adesso cominciasse a vivere fuori dai fumetti. Lui ci pensa su: «Guarda però che non mi vorresti mai seduto accanto a una cena perché non parlo, non faccio battute, non faccio ridere. Le battute mi vengono in mente solo quando scrivo». Lo incontro alla vigilia dell’uscita di Dodici, il suo terzo libro – quarto se si conta la raccolta delle storielle uscite su web, Ogni maledetto lunedì. Pubblicati da Bao Publishing e venduti in decine di migliaia di copie, i libri di Zerocalcare sono un fenomeno editoriale che va molto al di là del mondo del fumetto.

Voglia di lavorare…

Dice di sé: «Non sento dentro di me il sacro fuoco della scrittura. È che a me non me va de lavorà. Ho fatto un sacco di cose che non mi piacevano, alla fine rimanevano i fumetti». Cose tipo? «Traduttore di documentari di caccia e pesca, call center in aeroporto, grafico e story board artist in uno studio di animazione, rilevamenti e interviste. Tutte robbe di merda». Ovviamente. Ma anche così l’elenco non è privo di una certa comicità. E a scuola? «Liceo linguistico e quattro mesi di università. Mia madre è laureata, così m’è rimasto un senso di colpa infinito verso i miei, mi sembrava di tornare indietro nella scala dell’evoluzione sociale». Coi fumetti adesso ci campi? «Riesco a pagarci l’affitto, se smettessi di botto avrei ancora qualche mensilità da parte e non dovrei tornare a casa dei miei subito. Ma è un attimo che alla gente gli rompi il cazzo, quindi continuo a fare ripetizioni, mi tengo quello come paracadute».

Altre controindicazioni? La “questione generazionale”. Perché? «È mpo’ ‘n accollo». Eppure dovresti tornare indietro a Nanni Moretti, a Andrea Pazienza, forse a Woody Allen per ritrovare la stessa esplosiva coincidenza di nevrosi personali e ossessioni collettive, generazionali. Ma pure la vena felice dello sketch, della battuta. Di fronte a tanto Michele un po’ si confonde, giustamente. Mi guarda strano. Racconta invece volentieri il suo apprendistato: «Da quando sono ragazzino i fumetti me li sono mangiati tutti: Topolino, Tiramolla, Minnie, Sturmtruppen, Cattivik, Lupo Alberto, Dragon Ball, Ranma e i manga, i Marvel, la Dc, gli indipendenti. Oddio, l’unica cosa che non ho mai letto all’epoca è Andrea Pazienza, ma perché non girava in casa mia».

E se proprio deve, preferisce tirare in ballo i fumettisti blogger francesi come Boulet, che da qualche anno fa un lavoro simile al suo e perciò è «un riferimento diretto». O spendersi in lodi per il romanzo di Junot Diaz che ha appena letto – La straordinaria vita di Oscar Wao – che vorrebbe usare come ispirazione per il suo prossimo libro, una storia della sua famiglia. Ma ci vorrà tempo, aggiunge, almeno due anni. E intanto la sua coscienza, nella forma di chissà quale animale o personaggio storico o altra scheggia impazzita di wikipedia, lo attenderà al varco. «Il momento in cui ho iniziato a raccontare storie più personali è legato alla scomparsa di una mia amica. – spiega, ancora – Avevo voglia di far qualcosa che rimanesse fissato per non trovarmi tra dieci anni a non ricordarmi più niente di lei» (è diventato La profezia dell’armadillo, ndr).

Una storia alla Carpenter. Più Atac

Dodici è una storia di zombie. A Roma. Roma Sud. Cioè a Rebibbia sulla via Tiburtina, che è il quartiere dove Michele/Zerocalcare vive praticamente da sempre, ed è la prima delle sue ossessioni. «Preferisco morì che andare via da Rebibbia. – dice – Ho già cambiato sei case, tutte lì». Pensi che sta esagerando, ci ridi su. Fino a un certo punto. «Sono andato a Ferrara per quattro giorni e gli amici mi mandavano le foto della Tangenziale, sapevano che mi mancava». Dodici è una storia di zombie e del fallimentare tentativo di fuga dal quartiere di un pugno di trentasei superstiti con l’ultimo autobus ancora funzionante. Carpenter più Atac, diciamo. Tra i superstiti Zerocalcare (più morto che vivo, però); il suo amico Secco posseduto dello spirito di Ken il Guerriero; un cinghiale erotomane e una misteriosa frikkettona di Roma Nord, Katia. Il resto è a rischio spoiler, così può bastare.

Zerocalcare
«Gli zombi che piacciono a me sono quelli di Romero, le masse di diseredati. Il fatto è che io il genere non lo so fare, ogni volta che ci provo finisco per raccontare sempre me stesso»

E dentro il ritmo indiavolato della parodia comica, le descrizioni del quartiere si tingono di morbida poesia urbana: «Rebibbia aveva un suo ritmo lento, come una lagna dei Radiohead (…) Il carcere di Rebibbia è la più grossa fabbrica d’Europa (…) Se cresci a Rebibbia ti abitui ad aspettare. L’attesa ti entra dentro». Zerocalcare racconta anche così, alla sua maniera, la Roma che da anni silenziosamente cambia. La periferia dove si vive facendo slalom tra mille progetti mai realizzati, mal realizzati, abbandonati. La Roma di film come Sacro Gra o La nostra vita. La Roma sud degli hipster fuorisede, degli immigrati, dei vecchietti e dei bar giallorossi. In una delle tavole più rappresentative della storia, il signor Ermanno sopravvissuto all’attacco degli zombi punta un fucile e urla: «Non verrete qui a suonare i vostri bonghi. Questa non sarà mai una terra di fottute apericene. Quantevveroiddio Rebibbia non sarà il nuovo Pigneto!».

Roma? È Rebibbia e i centri sociali

«Gli zombi che piacciono a me sono quelli di Romero, le masse di diseredati. – spiega Michele – Il fatto è che io il genere non lo so fare, ogni volta che ci provo finisco per raccontare sempre me stesso. E qui nel corso della storia tutte le certezze dei personaggi compresa la natura degli zombi si dimostrano infondate, sono tutte casualità o fraintendimenti». Ma la movida è una roba da zombi, o no? Insisto. «Allo stato attuale dubito che qualcuno pensi di colonizzare Rebibbia per farne un quartiere di movida. Poi non si può mai dire. Comunque per me che sono straight edge la movida è quanto di più alieno ci sia». Qui bisogna spiegare in nota che straight edge sarebbe una variazione dell’hardcore punk americano, soberrima, vegana e anche piuttosto esotica. «Conto sulle dita di una mano le volte che sono andato a bere fuori da uno spazio occupato, succhi di frutta comunque. – continua Michele – Da quando ho sedici anni per me Roma è Rebibbia e i centri sociali. Al centro non ci vado mai, ormai è solo per i turisti, non saprei nemmeno dove parcheggiare».

Non l’ha mai nascosto, tutt’altro. La prima storia che ha disegnato raccontava il suo viaggio al G8 di Genova. Era rabbiosa, vera, naif. E tanti manifesti per i concerti punk. «Cose che ci servivano», dice semplicemente, usando il plurale collettivo. Di recente, sui muri di Trastevere è comparsa una sua storia in sostegno del cinema America occupato. Come ai vecchi tempi. «Ho 29 anni – spiega – e frequento i centri sociali da quando ne avevo quindici o sedici. Ho vissuto la fine di un periodo d’oro, se vuoi. Oggi la prima generazione ha quasi quarant’anni e per molti versi l’aspetto comunitario di quella storia è venuto meno. Ma per me, prima ancora che una cosa politica quella è la mia famiglia. Non sono pessimista, i centri sociali di seconda generazione hanno fatto tante altre cose ugualmente importanti».

[do action=”quote” autore=”Michele Reich/Zerocalcare”]«Sono un soldatino politico, i panni sporchi si lavano in famiglia, il movimento è la mia tribù e la tribù vale più di un partito»[/do]

Oggi Zerocalcare, oltre al blog e ai libri ha uno spazio su Internazionale e uno su Wired. Alle presentazioni dei suoi libri (ieri era a Milano, oggi oggi è atteso a Mestre) si arma di santa pazienza e regala disegnelli di affettuosa dedica a file chilometriche («vabbè, è che sono un po’ lento») di fans. Si muove con molta circospezione nel mondo della comunicazione mainstream, e iniziamo a capire il perché. Dice di aver rifiutato delle proposte di disegnare vignette per i quotidiani, e dio sa quanto ce ne sarebbe stato bisogno: «La condizione minima per fare satira politica è che non devi mai cercare il consenso del tuo pubblico. Devi essere anche capace di essere autoironico, e prendere in giro i tuoi. Questa roba per esempio la sa fare Makkox. Io non la so fare: posso prendere in giro me stesso, ma per il resto sono un soldatino politico, i panni sporchi si lavano in famiglia, il movimento è la mia tribù e la tribù vale più di un partito».