Una tregua di due settimane, cominciata giovedì 9 aprile e prolungabile, così da creare «un ambiente favorevole per gli sforzi di pace dell’inviato dell’Onu» per lo Yemen, Martin Griffiths. Così ha annunciato mercoledì scorso il colonnello Turki al-Malki, portavoce della coalizione militare a guida saudita. Le forze antigovernative degli houthi dicono di non fidarsi, chiedono la fine dell’assedio sul Paese, ma l’inizio della tregua unilaterale coincide con il primo caso accertato di coronavirus nello Yemen, nella provincia meridionale dell’Hadramaut, contesa tra l’esercito del presidente Abd-Rabbu Mansour Hadi e i gruppi riconducibili ad al-Qaeda.

LA TREGUA YEMENITA è una delle risposte all’appello del segretario generale dell’Onu. Il 23 marzo Antonio Guterres ha invocato un «cessate il fuoco immediato e globale, in ogni angolo del pianeta», per contenere i pericoli della pandemia. L’impatto della pandemia sui conflitti internazionali sarà difforme, da Paese a Paese, da regione a regione, hanno ricordato pochi giorni fa i ricercatori dell’International Crisis Group. Ma siamo già in una fase nuova: dopo aver colpito Cina, Europa e Stati uniti, il virus comincia a raggiungere le aree più vulnerabili del pianeta. Si passa dunque dal contenimento dell’epidemia nei Paesi con sistemi stabili e istituzioni solide, alla diffusione nei Paesi con istituzioni fragili e sistemi sanitari fragili, se non del tutto collassati dopo anni di conflitto, embarghi, bombardamenti, corruzione.

La pandemia potrebbe portare a una radicalizzazione dei conflitti per risorse sempre più scarse, a una riduzione dell’assistenza umanitaria o dei suoi finanziamenti, all’uso politicamente strumentale di beni e servizi da parte di governi e attori regionali, al ridimensionamento dell’attenzione, già deficitaria, per la gestione diplomatica internazionale delle crisi. E potrebbe colpire in particolare rifugiati (25 milioni nel mondo) e sfollati interni (40 milioni). Ma offre anche un’opportunità di dialogo tra i belligeranti, nel nome di un interesse comune cruciale: la sopravvivenza.

DALLA COLOMBIA ALLE FILIPPINE l’Onu registra almeno 12 casi-Paesi in cui almeno uno degli attori in conflitto abbia sottoscritto il cessate il fuoco. Guterres ha ammonito: «Che non sia soltanto retorica, la tregua», ma motivazioni e spinte cambiano di caso in caso. Reali preoccupazioni umanitarie, strategie mediatiche, calcoli politici e finanziari, il desiderio di tirarsi fuori da una guerra sempre più costosa (come per i sauditi). Motivazioni che non sempre bastano.

In Libia c’è stata una pausa umanitaria, un’interruzione circoscritta delle ostilità tra le forze del governo di Tripoli, riconosciuto dall’Onu, e quelle legate ad Haftar, ma gli scontri sono ricominciati e rischiano di intensificarsi, almeno fino a quando il virus non produrrà conseguenze più drammatiche. Più a sud, il Sudan registra un cessate il fuoco tra il governo e alcuni gruppi armati, come l’Esercito di liberazione del Sudan guidato da Abdel Wahid al-Nur, che ha accolto la richiesta dell’Onu per una tregua in Darfur, ma insiste nel rifiuto di unirsi al processo di pace di Juba. Mentre in Camerun, dove il governo a maggioranza francofona non intende negoziare con i “ribelli” della minoranza anglofona (e dove qualcuno sospetta che lo stesso presidente Paul Biya sia contagiato), soltanto le Forze di difesa camerunensi del Sud (Socadef), uno dei 12 gruppi ribelli principali, ha annunciato una tregua. Che gli serve soprattutto per ottenere un riconoscimento internazionale.

DEL RICONOSCIMENTO internazionale non si preoccupa affatto il governo del Myanmar, dove il Tatmadaw, l’esercito, ha rifiutato come «non realistica» ogni ipotesi di cessate il fuoco negli Stati del Rakhine e di Chin proprio nei giorni in cui dall’altro lato del confine il governo bangladese metteva in isolamento l’intero distretto di Cox Bazar, che ospita un milione di Rohingya, pigiati come sardine nei campi rifugiati e senza sufficiente protezione e assistenza: il Joint Response Plan è finanziato soltanto al 13%. Se India e Pakistan hanno intensificato proprio nel mese di marzo gli scontri militari di bassa-media intensità sul Kashmir, in Colombia l’Esercito di liberazione nazionale ha annunciato un mese di cessate il fuoco a partire dall’1 aprile, e così hanno fatto molti dei gruppi armati della Thailandia del sud, mentre nelle Filippine è stato prima il presidente Duterte, il 16 marzo, poi il 25 marzo Jose Maria Sison, leader del Fronte democratico nazionale delle Filippine, ad annunciare il cessate il fuoco.

IN AFGHANISTAN INVECE è lo stesso consiglio di sicurezza dell’Onu ad aver raccomandato il 31 marzo la cessazione delle ostilità. Il governo di Ashraf Ghani ripete di essere pronto alla tregua, mentre i Talebani assicurano di deporre le armi quando e se il coronavirus colpirà le aree da loro controllate. Potrebbe essere troppo tardi.

L’Afghanistan è particolarmente vulnerabile: più del 50% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, almeno 9 milioni di abitanti (su circa 35) hanno bisogno di assistenza umanitaria. Secondo la Banca mondiale, ci sono soltanto 3 dottori ogni 10 mila abitanti. E il Global Health Security Index, l’indice che misura la preparazione a fronteggiare le epidemie, colloca l’Afghanistan tra i Paesi meno preparati al mondo. Impreparato come tutti gli altri in cui sono in corso guerre e conflitti.

LA TREGUA, RIPETONO dalle Nazioni unite, è indispensabile per evitare catastrofi umanitarie. Ma il Consiglio di sicurezza dell’Onu è politicamente inerte e diviso. E i grandi attori, alle prese con sforzi finanziari eccezionali per contenere l’epidemia in chiave domestica, sono sempre più riluttanti ad aprire i portafogli.