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La trasfigurazione del cigno

La trasfigurazione del cigno

A teatro «Schwanengesang D744», realizzato da Romeo Castellucci per il festival D’Avignone, ha inaugurato la stagione del Metastasio e oggi sarà a Romaeuropa

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 7 novembre 2015

La cantante sta immobile in un cerchio di luce al centro della scena. I piedi piantati a terra, sul palcoscenico coperto da un tappeto plastico che offre un riflesso acquoso alla sua immagine. Sono solo i gesti delle mani a dare una voluta espressività alle parole che canta, versi che dicono del tempo che sfugge mentre l’anima scivola via come la barca che oscilla sulle onde simile a un cigno – un intrecciarsi vertiginoso di metafore da cui sembra di cogliere un senso di gioiosa malinconia. Veste un tailleur grigiazzurro con la gonna che arriva sotto il ginocchio, e sarà anche la spilla appuntata sul bavero a dare quell’aria antica e demodé. Metà Novecento o giù di lì.

Si presenta come un perfetto recital d’altri tempi questo Schwanengesang D744 realizzato da Romeo Castellucci per il festival di Avignone, nel 2013, che ha aperto la stagione del teatro Metastasio (e sarà a India stasera e domani per Romaeuropa). Un grande pianoforte a coda collocato ai piedi del proscenio accompagna la soprano svedese Kerstin Avemo attraverso la musica di Franz Schubert, dieci Lieder composti nella dozzina d’anni che precedono la morte del compositore viennese, nel 1828. Un vero e proprio «canto del cigno» come suona il titolo della serata, che è poi quello di uno dei brani cantati – e si allarga a facile metafora d’epoca (non se ne sfugge) di una condizione umana piuttosto sconsolata. Un crescendo di tristezze e lamenti e abbandoni. Luttuosi presagi. Richiami nostalgici alla natura come perduta oasi di felicità.
Senonché quasi impercettibilmente si produce una rottura in questa trama a suo modo perfetta e riconoscibile. La cantante è arretrata ai margini del cono di luce. Il suo volto è entrato in una zona d’ombra.

SCHWANENGESANG_Christophe RAYNAUD de LAGE_

D’improvviso scoppia in singhiozzi, si volta di spalle, lentamente si avvia verso il fondo dove nella penombra si è disegnata una vaporosa striscia luminosa. Il pianista (Alain Franco) chiude il pianoforte con un gesto definitivo che potrebbe ricordare quello compiuto in altre stagioni artistiche da John Cage. Ma sulle ultime note, al posto della cantante, al centro della scena intanto è apparsa in assolvenza un’altra figura. Porta un vestitino leggero meno formale ma ugualmente fuori dal tempo. Compie movimenti lenti che assomigliano a una sorta di tai chi. Ripete qualche verso di quei romantici parolieri.

La ricordiamo bene Valérie Dréville. Ricordiamo cioè l’emozionante versione della Medeamaterial di Heiner Müller realizzata una quindicina d’anni fa da Anatolij Vasil’ev con l’attrice francese: impossibile dimenticare l’immagine finale della protagonista che ripeteva come in trance l’ultima battuta, mentre ai suoi piedi si andavano spegnendo le fiamme che avevano divorato la sua veste. Si era dovuti uscire in silenzio senza che lei si muovesse. Corpo nudo e ferito, ormai svuotato dell’energia che l’aveva sorretta fino a quel momento. Il lento sprofondare dell’attrice nel personaggio, una trasfigurazione che si compiva attraverso il gesto e la parola, senza nessuna concessione alla psicologia. Il maestro russo che ci aveva conquistato con coinvolgenti creazioni che ribaltavano i luoghi comuni sul teatro di Pirandello, ora sorprendeva con l’invettiva disperata di una donna barbara di fronte a personaggi assenti, che cercava di far suo il suono di una lingua non sua.

Un’invettiva si rinnova anche in Schwanengesang. Chi vi ha permesso di entrare qui? – urla d’improvviso l’attrice rivolta alla platea. Cosa volete? Cosa avete da guardare? Guardare, guardare… Conards, je vous déteste. Svelle il tappeto che copre la scena e lo tira a sé, come a voler distruggere il luogo della rappresentazione. Il suo urlo si fa sguaiato, le parole volgari. Le «interferenze» di Scott Gibbons, fragorosi lampi che squarciano l’oscurità, danno un’enfasi drammatica che forse è superflua in questo momento e però rimandano a un linguaggio proprio del regista, quasi una sua firma. In un mescolarsi di italiano e francese è un profluvio di insulti al pubblico.

E come per quelli di Peter Handke, in anni ormai lontani, in questione c’è lo statuto dello spettatore all’interno dello spettacolo. Un tema attorno a cui la vena iconoclasta della Societas Raffaello Sanzio aveva girato a lungo, ma per mettere in gioco la funzione stessa dell’artista, dal più lontano Santa Sofia all’Inferno di Avignone (quando, va ricordato, Castellucci ne fu direttore associato insieme proprio a Valérie Dréville).

Un’onda che sommerge tutto e si ritira. Scusatemi, non sono che un’attrice – dice lei. Il «canto del cigno» si rivela allora qualcosa di meno facilmente consumabile di quel che ci si poteva aspettare. Dietro Schubert, dietro il malessere dell’artista si sente l’eco di una cognizione del dolore di cui è difficile liberarsi. L’attrice ha ripreso il suo silenzioso tai chi. Buio.

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