Il comune di Helsinki ha bandito dal 1 gennaio la carne dai menù degli eventi ufficiali, ammettendo tra i prodotti animali solo il pesce locale da pesca sostenibile e la selvaggina per alcune particolari occasioni. Gli studenti di Berlino hanno ottenuto dal novembre scorso che nelle 34 mense universitarie il menu sia per il 68% a base di cibi vegani, per il 28% vegetariani e solo per il 4% a base di prodotti animali. La campagna Veganuary, che sta per «gennaio vegano», dichiara che le adesioni quest’anno potranno superare i 2 milioni, considerando che è stata promossa anche nelle mense di alcune grandi aziende: dunque, due milioni di persone in più hanno accettato l’invito di provare pasti che non contengono carne o prodotti animali. Il neo-eletto sindaco di New York, Eric Adam, vegano, nelle prime uscite pubbliche non ha perso occasione per fare proseliti e ha già annunciato provvedimenti per diminuire il consumo di prodotti animali. Nel comune di Milano, su 85mila pasti serviti ogni giorno da Milano Ristorazione nelle scuole, il 10% sono diete etico-religiose e non contengono prodotti animali.

SONO ALCUNI DEI SEGNALI che indicano la tendenza verso una transizione dalle proteine animali a quelle vegetali. A seguire il denaro, la direzione sembra chiara: a livello globale, gli investimenti in prodotti sostitutivi di latte, latticini e uova sono passati da 50 milioni a 1600 milioni di dollari dal 2015 al 2020, mentre le vendite di questi prodotti sui mercati occidentali sono più che raddoppiate in valore in cinque anni, da 2,1 a 5,1 miliardi di dollari (Meat Atlas 2021, Heinrich Böll Stiftung), malgrado in alcuni stati il regime IVA sia più penalizzante rispetto ai corrispettivi animali. In Italia sul latte vegetale si paga l’aliquota dei prodotti di lusso (22%, contro il 4% del latte vaccino) e questo spiega in parte la differenza di prezzo, e l’approccio verso questi prodotti considerati d’élite.

La battaglia è anche culturale: mentre la Lav (Lega anti vivisezione) lancia una campagna rivolta ai sindaci delle maggiori città italiane affinché riducano nelle mense il consumo di prodotti animali del 20% entro il 2025, sul sito del comune di Roma viene specificato che per accedere alle “Diete speciali anno scolastico 2021/2022” è richiesta «attestazione medica su carta intestata con timbro e firma nella quale si dichiari di “essere a conoscenza che il bambino è alimentato con la dieta vegana / vegetariana”». E questo malgrado il ministero della Salute sia già intervenuto specificando che il certificato medico non serve.

Lo slogan della campagna della Lav “Meno carne nelle mense, meno smog” riporta il dibattito sul piano puramente ambientale. Uno studio pubblicato di recente su Nature Food (3/2022) ha stimato cosa succederebbe se 54 nazioni ad alto reddito, che rappresentano il 68% del PIL globale e il 17% della popolazione, riducessero i consumi di proteine animali secondo il regime suggerito dal rapporto EAT-Lancet (che non è vegetariano, ma riduce i consumi di carne rossa e di maiale a circa 100 gr a settimana e il consumo di latte e formaggi a 250 gr al giorno): le emissioni dei gas serra dal settore agricolo si ridurrebbero del 61%, con il sequestro di 98,3 Gt di CO2, che equivale alla somma delle emissioni del settore agricolo dei prossimi 14 anni. La produzione di alimenti sostitutivi della carne, che non contengono nemmeno uova o latticini, comporta emissioni di gas serra «del 90% inferiori rispetto alla produzione di carne rossa e richiede molto meno acqua e terra. Ma questi prodotti sono spesso altamente processati e contengono molti additivi», mette in guardia Meat Atlas.

I REGIMI VEGANI O VEGETARIANI di per sé non sono garanzia di salute, né per l’uomo né per l’ambiente. Dunque, cosa mettere nel piatto al posto delle proteine animali, che sia sostenibile, salutare e appetibile e non assimilabile al junk food (cibo spazzatura)? A questa domanda intende rispondere il progetto di ricerca Smart Protein, finanziato con 10 milioni di euro dai fondi europei Horizon 2020, coordinato da Emanuele Zannini (vedi intervista qui a fianco), nel quale sono coinvolti tutti gli attori della filiera alimentare da 22 paesi, dai produttori di semi agli agricoltori alla grande industria alimentare, oltre a istituti di ricerca e varie Università, con l’approccio della strategia europea Farm to Fork, dal campo alla tavola, che si propone di rendere il sistema del cibo giusto, sano e rispettoso dell’ambiente.

PER AVVIARE LA TRANSIZIONE PROTEICA, prima di tutto sarà necessario produrre nuove proteine vegetali. Ma si parte in salita: l’UE soffre di una cronica carenza di colture proteiche, per lo più leguminose, sia per l’alimentazione umana sia per quella animale, e infatti importa il 75% del suo fabbisogno da Brasile, Argentina e Stati Uniti, mentre riserva solo il 3% della superficie agricola a queste colture, completamente trascurate anche dalla ricerca. Individuate le varietà ideali, Smart Protein si propone di innovare i metodi di estrazione delle proteine per poi metterle a disposizione dell’industria che con queste produrrà nuovi cibi sostitutivi della carne. Quali esattamente non è dato sapere: l’orientamento dell’industria è cercare di imitare la fettina, la coscia di pollo, il salame, persino il pesce e le uova, oltre ai sostituiti di latte e formaggio.
Qualcosa sugli scaffali c’è già, l’industria ci lavora da tempo: in novembre i supermercati Migros hanno messo in vendita il primo uovo a base vegetale che sembra un uovo, ma non l’ha fatto una gallina. Nestlé ha annunciato di aver investito 4 milioni di dollari per mettere a punto qualcosa che assomigli alla pelle del pollo per rendere più realistiche le sue ali di pollo vegane. È questo che chiede il mercato in cambio di un minor consumo di proteine animali? Secondo il Wageningen Economic Research, che ha esaminato e confrontato i risultati di 91 articoli scientifici, «i fattori che influenzano l’accettabilità sono il sapore, la salute, la consuetudine, la neofobia alimentare, cioè la paura a provare cibi sconosciuti, il disgusto e le norme sociali». Le aziende scommettono sulla consuetudine, guai a uscire dalla comfort-zone. Secondo un sondaggio svolto all’interno del progetto Smart Protein tra 7500 consumatori che fanno regolarmente la spesa (50% uomini, 50% donne, in 10 paesi europei), se i sostituiti vegetali avessero «identico sapore e consistenza» il 36% comprerebbe carne vegetale – e di questi il 22% sarebbe disposto a pagarla anche di più – il 26% comprerebbe sostituti dei formaggi, il 31% sostituti dei salmone, il 29% di tonno. Nella scelta dei sostituiti delle proteine animali, il fattore che più conta è il gusto (40%), seguito da salubrità (34%), freschezza (29%). In generale, il 30% del campione europeo si dichiara flexitariano, cioè ha ridotto il consumo di carne che mangia solo occasionalmente; un altro 10% non ne consuma affatto – perché vegetariano (5%), vegano (2%) o pescetariano (3%) – mentre il 60% del campione si dice onnivoro.

TRA GLI ITALIANI INTERVISTATI, LA PERCENTUALE DI FLEXITARIANI è un po’ più bassa rispetto alla media (25%), mentre vegetariani e vegani sono complessivamente il 6%. Rispetto ad altri consumatori europei, gli italiani sono tra quelli che mostrano la più alta propensione a diminuire il consumo di latticini: il 33% ha dichiarato che ridurrà il consumo di latte, yogurt e formaggio nei sei mesi successivi e che vedrebbe con favore in vendita nei supermercati mozzarella vegetale grattugiata (36%) e formaggio stagionato grattugiato (27%). Tra gli ingredienti vegetali sostitutivi, gli italiani preferiscono patate, riso e mandorle e sono anche i consumatori più attenti in Europa, insieme ai rumeni, a considerare importante la certificazione biologica sui prodotti a base di proteine vegetali.