L’editore Carbonio ripubblica un libriccino di Manlio Sgalambro uscito nel 1994: Contro la musica (pp. 59, euro 9). Vi aggiunge la prefazione di una delle figlie del filosofo, Elena, che del padre offre questo esatto ritratto: un «visionario che ha sempre guardato all’uomo come un male inevitabile, con grande curiosità e con ancora maggiore distacco, volendosi mischiare con la banalità dell’esistere solo alla bisogna». I legami di Sgalambro con la musica di Franco Battiato sono noti, meno forse il fatto che della musica il filosofo tentò una vera e propria metafisica, che si riassume in parte in questo testo. «In realtà la musica arriva da chi sa dove» scrive Sgalambro. Qualunque ne sia il luogo, l’origine e l’espressione, la musica è un enigma del quale non è sufficiente proporre una semplice «filosofia» ma bisogna tentare per l’appunto una metafisica. L’attacco è rivolto a Ernst Bloch e a Theodor Adorno, i quali avrebbero praticato una filosofia della musica che in realtà l’ha ridotta a una sociologia. E però anche Sgalambro, come Adorno, ritiene che la musica non debba farsi apologia, difesa, consacrazione dell’esistente. Solo che per Adorno si dà la possibilità di una musica liberata e liberatrice mentre per Sgalambro è la musica in quanto tale a stare «dalla parte del mondo», poiché «lasciata a se stessa» essa ne celebra l’insignificanza e l’assurdo trasformandoli in facile armonia, in musichetta e in grancassa, in un’opera d’arte totale che pervade una miriade di momenti, occasioni, eventi, diventando la colonna sonora della stupidità, dell’obbedienza, della banalità.

NELLA PERVASIVITÀ della musica dentro le nostre giornate, occasioni, camminate e lacrime «Wagner, sconfitto, trionfa. L’odierna musica da stadio è wagneriana sino alla feccia. Essa realizza l’opera totale» persino quando – e qui è chiaro il riferimento polemico a John Cage – pur di «farsi sentire costi quel che costi» si adopera il silenzio. In effetti la celebre e apparentemente paradossale composizione 4’33’’ – fatta appunto di silenzio, dell’esecuzione del silenzio – rischia di oscurare la musica di John Cage, la quale se è apologetica lo è come tutte le parole che si esprimono sul mondo e che sorgono dal mondo. Un mondo che per Sgalambro semplicemente «non dev’essere». In questo filosofo c’è molta lucidità ma c’è anche l’inevitabile, forse, richiamo nostalgico ad altre epoche, meno banali meno cialtrone meno massificate. Lo si vede dall’utilizzo di un dispositivo linguistico come la contrapposizione tra il «prima» e l’«oggi»: «Mentre prima la musica si andava ad ascoltare e si percorrevano leghe a dorso di mulo, oggi è essa che si fa sentire senza remissione. È vero, naturalmente, e il risultato è spesso immiserente. Ma non andrebbe sottovalutata la possibilità data a chiunque di scoprire, conoscere e ascoltare musica non soltanto composta a chili ma distillata da una lucida consapevolezza delle cose e della storia. Più feconda, ed è questo il vero nucleo del libro, è la contrapposizione che Sgalambro propone tra due diverse forme di ascolto. La prima è quella dalla quale «non risultano differenze», in cui tutto si mescola nell’intrattenimento di un ascolto passivo che diventa puro ornamento delle giornate.

CHE SI TRATTI di una messa rinascimentale, di Beethoven, di jazz o di disco music, non cambia nulla, non c’è appunto differenza. La seconda forma è invece un «ascolto rinnovato», attraverso il quale «si deve scorgere come deve essere ascoltata la musica. Il nuovo tipo d’ascoltatore, ascolta l’ascolto», vale a dire ascolta nei suoni la dissoluzione di ogni cosa, percependo nell’ascolto stesso «la fine del mondo». In questo modo e a questo punto la musica avrà oltrepassato ogni stasi, ogni classicismo, ogni conservazione «e tutto si dilegua ai quattro venti. Quando termina l’esecuzione, gli strumenti l’hanno dispersa, sfiniti, nell’aria». Quella di Sgalambro è una metafisica della musica che diventa una difesa del tramonto al quale ogni divenire è destinato e che proprio per questo merita di essere letta e ascoltata.