«I democratici vinceranno la Camera, i repubblicani il Senato». Così Fred Wiseman rispondeva pochi giorni prima alla domanda: «Cosa pensi che accadrà alle elezioni di midterm?». E con lo stesso umorismo che pervade i suoi film aggiungeva: «Tieni presente che non sono Nostradamus, ero anche io tra quelli che pensavano che Trump non sarebbe mai diventato presidente». Invece la sua previsione risponde a quanto è accaduto al midterm. Wiseman, bostoniano di nascita, il suo Paese lo conosce bene, l’ha esplorato in profondità con i suoi film scegliendo punti di vista di millimetrica precisione: istituzioni pubbliche, scuole, ospedali, comunità in piccole cittadine laboratorio delle ossessioni nazionali per comporre nelle sue molte sfumature la trama complessa dell’America. E sin dai primi film, da quel Titicut Follies (1967), a lungo censurato negli States con la scusa della liberatoria dei suoi soggetti.

Davanti alla macchina da presa c’erano infatti i pazienti di un manicomio criminale, a Bridgewater, in Massachusetts, ai quali però medici e funzionari per spappolare il cervello con la violenza e gli elettroshock non hanno mai chiesto il parere.
Wiseman a differenza di altri tipo Michael Moore non offre soluzioni «di parte», che sono anzi all’opposto del suo «cinema diretto». Non giudica chi sta davanti alla sua macchina da presa, non vi sovrappone una griglia ideologica – i buoni, i cattivi. Sarà per questo che le sue storie riescono a sempre a catturare il sentimento del presente.

Monrovia, Indiana – presentato alla Mostra di Venezia (fuori concorso) e oggi in apertura del festival milanese Filmmaker (fino al 24 novembre) – prende il titolo dalla cittadina del Midwest, poche decine di chilometri da Indianapolis, nel cuore della Corn Belt: cieli azzurri, campi gialli di mais, file di case ordinate tra cui Wiseman curiosa con discrezione tanto che nessuno sembra badare alla sua presenza a parte una ragazzina a scuola, la più carina della classe, che continua a sistemarsi i capelli – Lui ci ride quanto glielo faccio notare: «Era molto simpatica e molto sveglia» dice.

La crisi che devasta la Rust Belt è lontana: bar, mercatini, birra, hamburger che colano grasso, gli scaffali dei supermercati colmi di cibi calorici, armi, corpi obesi, preghiere, massoneria. Il resto del mondo sembra non esistere a Monrovia, dove gli unici argomenti di conversazione sono gli attrezzi agricoli, i ricordi del vecchi compagni di scuola. Al massimo una discussione su quante panchine mettere di fronte alla biblioteca, e su come bloccare i nuovi investimenti edilizi che potrebbero portare troppi «stranieri» nella comunità. I giovani se ne vanno, i neri non ci sono a Monrovia che vota quasi tutta per Trump anche se nessuno parla di politica. E le ragioni sono tutte lì, senza bisogni di spiegazioni o di retoriche, basta guardare i riti quotidiani.
Fred Wiseman lo abbiamo incontrato a Venezia.

Monrovia concentra un alto numero di elettorato di Trump anche se nessuno parla di lui o in generale di politica. Che idea ti sei fatto su questo?
Visto che non è un tema di discussione posso soltanto immaginare le ragioni delle loro scelte. Non credo che si siano censurati di fronte a me, direi piuttosto che non sono interessati al mondo esterno. Le loro preoccupazioni si concentrano su quanto accade a casa propria, e forse questo è l’aspetto che più mi ha colpito di loro. Non conoscevo Monrovia ma volevo girare un film nel Midwest, mi sembrava fosse il posto giusto per completare il mio racconto dell’America. Di Monrovia mi ha parlato un’amica di Boston, sono andato a vedere e ho trovato una cittadina di 1400 abitanti, senza preoccupazioni economiche, con dei paesaggi bellissimi che restituivano l’immagine di una società agricola. Ho sempre scelto città piccole perché mi interessa lavorare sulle comunità e questa era perfetta. La mia amica mi ha presentato una docente dell’università di Indianapolis la cui famiglia vive ancora lì. Essere introdotto da qualcuno del posto è stato fondamentale, si sono resi garanti per me e per il mio lavoro e questo mi ha permesso di muovermi liberamente; a scuola, al comune, nei centri ricreativi, tutti davano il loro assenso. Ho cominciato le riprese due mesi dopo la mia prima visita.

Armi, religione, obesità: nel microcosmo di Monrovia sembra concentrarsi l’America, o almeno quella parte che, appunto, crede alle promesse di figure come Trump.
I cittadini di Monrovia fanno parte del suo elettorato però non discutono di politica perché è un argomento che non rientra nelle loro conversazioni abituali, preferiscono parlare della scuola, dei vecchi compagni di classe, della fattoria, degli attrezzi agricoli. Eppure tutto questo, anche se in modo implicito, ci spiega il perché della loro scelta. Lo stesso vale per il cibo o per le armi: non abbiamo mai mangiato a Monrovia, tornavamo nel nostro hotel, a Indianapolis, dove cucinavamo alimenti biologici. La questione è sempre la mancanza di consapevolezza: c’è un 2% di persone che si pone delle domande, il resto che vive nell’accettazione del mondo come è. A Monrovia sono molto religiosi, la religione provvede a dare ogni spiegazione, anche gli eventi più terribili vengono accettati pensando che poi si andrà in paradiso. In questo modo l’esperienza umana viene tagliata fuori, o diviene il semplice riflesso di quest’ordine divino, determinando una completa mancanza di curiosità verso le persone e verso il mondo.

Vuol dire credere a quanto viene detto, alla propaganda, non mettere mai in discussione nulla e respingere chi lo fa.
Il dubbio e lo scetticismo sono sempre positivi, esprimono un pensiero sul mondo. Delegare ogni risposta alla religione è un po’ la stessa cosa che credere in quanto viene detto dai politici o da una certa informazione, purché nulla sia modificato. Ricordo che anche nella mia famiglia erano molto religiosi e avevano un po’ lo stesso atteggiamento, rimandando alla religione ogni spiegazione di quanto accadeva in terra. Appena ho capito questo – e che naturalmente non funzionava così il mondo – mi è stato tutto molto più chiaro. Quando ho iniziato a fare film mi è apparso evidente che il genere umano ha bisogno di appigliarsi a qualcosa, se non è la religione sono le ideologie… Forse perché è più facile affidarsi a una forza superiore per motivare ciò che non funziona invece che assumersene la responsabilità provocando magari un cambiamento.

I tuoi film lavorano sempre su un paesaggio umano, geografico, emozionale, sulla sorpresa, sulla meraviglia. E sono sempre politici rifiutando di rimanere impigliati in una «tesi».
Forse perché li penso come dei romanzi e non come dei reportage giornalistici. Mi piace pensare che chi li guarda si senta trasportato nell’inquadratura, in una certa sequenza. Mi piace l’idea di raccontare qualcosa, non voglio mettere delle etichette sui miei materiali e tantomeno sulle scelte che faccio mentre giro condizionandole con degli obiettivi prestabiliti. Le connessioni le stabilisco piuttosto al montaggio. Ti faccio un esempio: Ex Libris: New York Public Library è nato come un film sulla Biblioteca pubblica di New York. È diventato un film politico grazie a Trump, perché la Biblioteca rappresenta tutto ciò che lui vuole cancellare: l’educazione, il sapere, la cultura, la scienza, il ruolo degli immigrati. Ci sono anche dei momenti divertenti in Monrovia, c’è dell’umorismo che mi appartiene ma che non ho creato appositamente. Se infatti prendessi in giro queste persone prenderei per primo in giro me stesso.