Quello di Chiharu Shiota è un cosmo filato di reti, sinapsi, onde che lasciano fluttuare i ricordi e li tengono stretti in un fermoimmagine destinato a durare. Sono libri aperti, ritagli di città, abiti sospesi nel vuoto, letti di ospedale risucchiati in mulinelli macroscopici. E poi porte che vanno a socchiudere circoli inquieti, chiavi invischiate dentro a ragnatele trasparenti e impenetrabili, navi che partoriscono nuvole, scarpe allacciate al soffitto.

Una geografia intima e astrale che ha preso forma negli anni scandita dai movimenti sempre uguali delle dita dell’artista, di volta in volta impegnate ad annodare il filo intermittente della coscienza. Se è vero che la ripetizione genera memoria, così fanno i triangoli di Chiharu Shiota, i suoi rombi che si moltiplicano in direzioni diverse ma sempre orientate a comporre un disegno più grande. Nata a Osaka, in Giappone, e trasferitasi a Berlino nel 1996, dove vive e lavora, Shiota ha rappresentato il Giappone alla Biennale di Venezia nel 2015 con l’installazione The Key in the Hand. I suoi lavori sono intrisi di un forte senso del dove, pur essendo situati in una sorta di spaziotempo dislocato, capace di smagnetizzare in un attimo le coordinate del qui e ora. «Quando dico qui non mi riferisco a una città o a un indirizzo specifico, ma chiamo in causa la connessione che sento con la natura, con l’universo. Soprattutto quando faccio arte sento che il mio corpo è connesso non tanto allo spazio ristretto in cui mi trovo ma all’intero universo» ci racconta in un’intervista. È quello che si prova a camminare tra le trame della sua ultima installazione, Me Somewhere Else (alla Blain|Southern di Londra fino al 19 gennaio, ingresso libero), un vortice dalle maglie a tratti slabbrate che parte dai piedi – un calco realizzato sul corpo dell’artista – e si dipana verso un infinito extraterrestre e intrauterino.

A METÀ STRADA tra il manufatto e la performance, ci troviamo di fronte all’incarnazione perfetta della cifra scelta da Shiota dopo anni di ricerca. «Volevo estendere la linea dal disegno allo spazio, mi sentivo così limitata quando disegnavo sulla carta o sulla tela» racconta «volevo disegnare nell’aria usando tutto il mio corpo».
È da questo slancio che nascono le sue sculture disegnate, le sue installazioni immersive, monocromatiche, di volta in volta votate a un colore per evocare un intero immaginario. «Il colore che scelgo per i miei fili ha un significato» spiega infatti Shiota. Strati e strati di filo nero simbolizzano il cielo di notte, il filo bianco è la purezza, è connesso con la morte «in Giappone i corpi vengono vestiti di bianco prima di essere seppelliti, il bianco rappresenta la fine e allo stesso tempo un nuovo inizio. Il filo rosso invece è come il sangue, ci parla delle pareti interne dei nostri corpi, delle reti umane». Così accade nell’installazione ospitata alla vigilia dell’inverno dalla galleria di Londra: le viscere s’impastano alla complessità delle reti neurali, la viscosità dei vasi sanguigni all’impermanenza delle relazioni. In Me Somewhere Else Shiota sembra prendere in considerazione l’idea che la coscienza possa esistere indipendentemente dal corpo, che possa arrivare oltre, muoversi in un altrove difficile da localizzare. «Quando i miei piedi toccano terra mi sento connessa al mondo, all’universo che si dispiega in una rete di connessioni umane, ma cosa accade se non sento più il mio corpo? Dov’è che andrò quando il mio corpo non ci sarà, quando i miei piedi non toccheranno più terra?».

VENT’ANNI FA, nella performance Try and go home, Shiota – che in quel periodo era allieva di Marina Abramovic – cercava ripetutamente di infilarsi nuda in una cavità di terra che aveva scavato con le sue mani, ricreando il tormento che si prova a non poter mai tornare davvero a casa. Un’esperienza universale, forse perché siamo destinati a tornare soltanto dopo la morte, prima non sempre ci è dato conoscere questo sollievo, chi ha vissuto la migrazione lo sa meglio.
«Quando sono andata a vivere in Germania pensavo sempre al Giappone come casa mia. Poi tornavo in Giappone e non mi sentivo più a casa, ma quando di nuovo arrivavo in Germania il Giappone mi mancava come una casa», racconta Shiota. «È stata questa sensazione che mi ha spinto a realizzare quella performance. È una sensazione che provo tutt’ora, di trovarmi in un territorio di mezzo, dove è difficile sentirsi a casa. Di fatto sto ancora cercando, è quello che provo a fare con la mia arte». Non sarà un caso se le opere di Shiota incarnano sempre uno spostamento, una distanza – i libri sono dislocati altrove rispetto a chi li legge, i vestiti rispetto ai corpi che li hanno indossati, la stasi è isolata dal movimento, il peso dalla gravità.
Un’ossessione che l’artista rintraccia nell’essenza stessa del processo creativo. «Devo sempre iniziare da qualcosa, da una sensazione, da un accadimento o anche solo da un profumo. Se colleziono chiavi che sono state usate da qualcuno, sto raccogliendo memoria, immaginazione, è allora che posso iniziare il mio lavoro, raccontare una storia che possa essere ricordata, estenderla a qualcosa di universale».

ALLA RADICE della ricerca di Shiota c’è sempre la memoria delle cose assenti: gli oggetti sono gusci vuoti, le stanze conservano la presenza di chi ci è entrato di recente. Potremmo arrivare a credere che la materia sia dotata di una sua propria memoria, o forse è il nostro modo di raccontarci che non siamo soli sulla Terra, che il presente non è l’unico tempo di cui possiamo avere esperienza?
«Non penso che la materia sia necessariamente dotata di memoria, è la nostra mente piuttosto a creare questa memoria, una storia, un attaccamento emotivo. Penso che si tratti di una dimensione esclusivamente umana, noi creiamo la nostra stessa memoria e così facendo creiamo un passato, un presente e un futuro. È quello che ci distingue dall’inanimato. In questo momento, sono in molti a chiedersi in cosa gli umani differiscano dall’intelligenza artificiale. Io credo che un robot sia sempre una macchina, anche quando dispone di più informazioni rispetto a quelle che riuscirebbe a gestire una mente umana. Perché una macchina non può creare memoria, siamo noi che innestiamo memorie dentro alle macchine. È l’umanità che fa la memoria».

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SCHEDA:

Da Kyoto a Berlino, con una chiave in mano

Dopo aver studiato alla Seika University di Kyoto Chiharu Shiota si è trasferita in Germania per studiare con l’artista e performer Marina Abramovic. Le sue opere sono state esposte all’Art Gallery of South Australia di Adelaide in Australia), al Kode Art Museum di Bergen in Norvegia, alla Kunsthalle gallery di Rostock e al Kunstsammlung Düsseldorf in Germania, alla Freer and Sackler Gallery of Art di Washington D.C. e al Moma di New York negli Stati Uniti, al Museo dell’arte di Kōchi e al National Museum of Art di Osaka in Giappone, a La Maison Rouge di Parigi. Considerata una delle artiste giapponesi più interessanti della sua generazione, Shiota ha rappresentato il Giappone alla 56esima edizione della Biennale di Venezia nel 2015 con l’installazione «The Key in The Hand», dove una collezione di circa cinquantamila chiavi provenienti da tutto il mondo era tenuta sospesa da una matassa di fili rossi. Le installazioni di Shiota sono spesso definite «immersive» per la possibilità che offrono di essere attraversate fisicamente da chi le guarda. Sempre al confine tra il sonno e la veglia, la realtà e il delirio, Chiharu Shiota nel corso degli anni ha isolato, ingrandito e reso visibili i meccanismi più minuti dei nostri ingranaggi interni, imbozzolandoli dentro ai suoi grovigli perfetti.