Succede dentro gli spazi immensi delle OGR, le Officine Grandi Riparazioni, o della Fiat Lingotto, che hanno trovato una seconda vita. Succede fermandosi a guardare, sulla linea di confine con la cittadina – satellite di Moncalieri, lo splendido fantasma della Manifattura tessile, in mezzo al verde incolto di un parco. Succede nel quartiere Aurora, passando accanto a una fabbrica senza nome, mura di mattoni, due file sovrapposte di grandi vetrate. Succede di ritrovarsi a immaginare gli odori, i rumori, le voci, le facce, le vite di una Torino perduta per sempre: quella del lavoro operaio, nato poco più di un secolo fa, cresciuto fino a diventare motore potente dell’economia italiana, per poi sparire lasciando alla città la difficile scommessa di un futuro diverso. Sono 255 i testimoni superstiti del lavoro perduto. Tanti quanti gli edifici industriali censiti e catalogati sul sito di Immagini del cambiamento, progetto del dipartimento DIST del Politecnico di Torino mirato a documentare i vari aspetti delle trasformazioni urbane, soprattutto nel periodo successivo al secondo conflitto mondiale. Altri, numero impossibile da quantificare, li hanno cancellati le due guerre del Novecento, le demolizioni, il Piano Regolatore del 1995, l’abbandono.

La capitale
Nel 1861, l’allora capitale d’Italia contava duecentoventimila abitanti. Un quarto aveva trovato impiego nei laboratori e nelle botteghe del settore alimentare e tessile. Gli stabilimenti erano tre: la Manifattura Tabacchi, duemila addetti per la maggior parte donne; l’Arsenale Militare, la Fabbrica d’Armi legata alla Regia Scuola di Artiglieria. Il trasferimento della capitale a Firenze, 1864, precipita la città in una profonda crisi economica, aggravata da quella internazionale, e la spopola. I residenti scendono a centonovantamila nell’arco di quattro anni. Per riaversi, Torino dovrà aspettare il 1898, anno di fondazione della Ceirano GB & C di Giovanni Battista Ceirano, che inizia a costruire la Welleyes, automobile a due posti. Il successo clamoroso della vettura mette la Ceirano di fronte all’impossibilità di gestire ordini e produzione.

Agnelli
Così Giovanni Battista cede brevetti e impianti della Welleyes a Giovanni Agnelli, che nel 1899 fonda la FIAT. Il sogno imprenditoriale a quattro ruote fa nascere la Itala, la Mirabilis, la Perfecta, la Taurinia, la Fata, la Diatto. E pur se l’industria, dal primo decennio del Ventesimo secolo, guarderà anche verso altri settori, sarà quello dell’automobile a esercitare ruolo egemone fino agli anni ’80 del secolo passato. La maggior parte dei 255 edifici racconta tutto questo. Lo fanno non soltanto le cattedrali delle catene di montaggio (Fiat Grandi Motori, Westinghouse, Officine Savigliano Fiat Ferroviaria, la Fiat Mirafiori ormai semideserta), ma anche le tracce residue dell’indotto, le medie realtà produttive e le ‘boite’, soprannome dialettale dal francese boîte, scatola, minuscole aziende artigianali. Un solo cliente per entrambe, la FIAT.
Dell’altra Torino imprenditoriale rimangono pochi, preziosi reperti, tra i quali una conceria, un’azienda di pianoforti e una di ceramiche, una fonderia e smalteria, uno stabilimento di produzioni cinematografiche… Il filo della memoria si spezza quando la mancanza di un’insegna e il vuoto degli archivi costringono a classificare come ‘ignota’ l’attività di una fabbrica dismessa da chissà quanto. Né aiuta domandare alla gente del quartiere, oppure entrarci. Di ciò che si faceva lì non è rimasta la benché minima traccia. Il capoluogo piemontese è dunque padrone di un patrimonio di moderna archeologia che potrebbe costituire risorsa non secondaria sotto l’aspetto sociale e culturale, nonché valore aggiunto dal punto di vista turistico.

Il possibile riuso
E infatti, nel capitolo ‘Le trasformazioni delle aree industriali’, il sito di Immagini del cambiamento annota «Oggi brani di città completamente nuovi – per forme, usi e tipologie edilizie – si mescolano a situazioni più ibride, in cui la memoria industriale concorre a creare linguaggi architettonici e paesaggi urbani più complessi… e a veri e propri progetti di riuso e rifunzionalizzazione di interi manufatti significativi per la storia torinese…». Le OGR, il Lingotto, la ex Incet, le Officine Savigliano sono diventate, dopo il loro recupero, complessi multifunzionali con differenti finalità di utilizzo. Al contrario, il destino di altri siti non meno importanti in termini di valore architettonico e dimensioni, continua a rimanere sospeso per le difficoltà nel reperire i fondi, gli ostacoli della burocrazia, le divergenze di idee tra pubblico e privato. Non mancano, va detto, i restauri ‘minori’ che hanno restituito dignità e bellezza, ad esempio alla FIP, Fabbrica Italiana Pianoforti. Luca Davico, ricercatore del DIST e coordinatore di Immagini del cambiamento rassicura sulla sorte dei piccoli siti, concentrati nelle periferie operaie «I casi di fabbrichette e officine spazzate via sono abbastanza rari. Riguardano per lo più capannoni, magazzini improvvisati, annessi, tirati su alla meglio. In genere i nuovi proprietari hanno conservato la struttura originale».
Soltanto un ricordo, ovviamente, il lavoro del tornio, del bulino, della lima, della pressa. Sempre a Immagini del cambiamento si deve uno studio che prende in esame la funzione odierna di tutte le fabbriche censite. Il 32% vale a dire 82 edifici, è stato riconvertito ad abitazioni, il 14%, 36 edifici, risulta abbandonato; identica la percentuale e il numero degli edifici che ospitano servizi pubblici; l’8%, cioè 19 edifici, è occupato da super e ipermercati; l’8% è rappresentato da 14 parchi e giardini; 18% e 47 edifici sono la quota delle imprese del Terziario.

Tattiche urbane
Diversa e assurda sorte è toccata alla Manifattura tessile di Moncalieri, ribattezzata non ufficialmente ’Planet Tactical Urban’. Al secondo piano, in mezzo alle vecchie macchine per la filatura, gruppi di guerrafondai della domenica si affrontano in azioni militari, impugnando armi finte che sparano pallini ripieni di vernice. La pratica prende il nome di Softair. Ennesimo caso di idiozia collettiva contemporanea.