Al congresso fondativo di Sel, trovai entusiasmante l’idea che si potesse e si dovesse riaprire una partita a sinistra, costituendo un soggetto che nasceva con l’esplicita finalità di sciogliersi in qualcosa di più grande. Alla vigilia del II° imminente congresso, so che Sel può essere utile alla sinistra e all’Europa soltanto a condizione di compiere un decisivo passo in quella direzione. Senza questo coraggio, non c’è futuro né per Sel né, forse, per la sinistra italiana in Europa, destinata – come ha scritto Asor Rosa (il manifesto, 16 gennaio 2014) – a rimanere inesorabilmente muta per una lunga stagione.

Abbiamo cercato, in questi anni, un vocabolario del cambiamento. Talvolta ne abbiamo persino rintracciato frammenti, in sintonia con la nostra gente e col desiderio di trasformazione diventato, non per caso, maggioranza. Poi, la «non vittoria» – che forse sarebbe tempo di chiamare «sconfitta» – di Italia Bene Comune ci ha spezzato in bocca le parole. La ragione è semplice: non erano le parole giuste. Si faceva strada, frattanto, un nuovo lessico che «rottamava» non solo e non tanto una classe dirigente colpevole di errori e sconfitte, ma un intero secolo – tanto duro quanto prezioso – di sfide collettive e assalti al cielo: «il secolo della politica» lo ha chiamato un ragazzo del secolo scorso che siede, con qualche imbarazzo, sui banchi del senato nelle file del Pd di Matteo Renzi. Così siamo usciti dal Novecento nel verso sbagliato. Così è venuto il tempo dei lupi, dei legami sociali frantumati, delle reti strappate, delle solitudini incantate dalle sirene dei populismi, del lavoro come ricatto e della fine della politica come riscatto. Capita di pensare che la scommessa sia rimasta appesa a cavallo di due secoli: il «culo» troppo pesante per scavallare il crinale e venir giù dalla parte del nostro tempo.

Giocavamo, forse, nel campo sbagliato. Perché, come oggi dicono i più accorti (pur tra loro diversi), da Barbara Spinelli a Toni Negri e Sandro Mezzadra, da Yann Moulier Boutang a Stefano Rodotà, il campo della sfida è lo spazio pubblico europeo. È innanzitutto in Europa che si consuma oggi quel vero e proprio divorzio tra democrazia e capitalismo, che tanto inquieta, innanzitutto le punte di diamante del pensiero democratico e persino liberale, da Streek a Bauman, da Beck al nostro Luciano Gallino. È al crepuscolo del modello sociale europeo, testimone del lungo matrimonio tra democrazia e capitalismo, che si avverte, per intero, quanto sia salato il prezzo delle disuguaglianze. Il fiscal compact è, da questo punto di vista, il miglior indicatore di una crisi che è, insieme, crisi sociale, culturale e democratica dell’Europa intera.

Lo spazio europeo è stato, sino ad oggi, sempre evocato e mai attraversato. È giunto il momento, per Sel e per molti, moltissimi compagni di strada, di calpestare, senza tentennamenti né paure, la «terra di mezzo» che alberga tra la famiglia socialista e la sinistra europea. Non si può, tuttavia, difendere un luogo dell’immaginario, uno spazio che ancora non esiste. O meglio: esso esiste nel corpo vivo della società, quello dei movimenti per lo jus soli e i beni comuni, il reddito di cittadinanza e la riduzione del tempo di lavoro, l’accesso al sapere e ai diritti civili, il social compact e la democrazia. Ma va difeso e puntellato come spazio politico, perché è oggi del tutto privo di rappresentanza.

Per esser chiari, se il Pse di Martin Schulz è argine indispensabile alle pulsioni antieuropee fatte di populismi riottosi e piccole patrie, altrettanto è essenziale, se vogliamo battere l’austerity e disegnare un’altra Europa, raccogliere e rilanciare l’appello per la candidatura del giovane Alexis Tsipras alla presidenza della commissione, con una grande lista civica di cittadinanza europea.

È questa la scommessa che Sel deve accettare, rinunciando a tutto ciò che non sia l’intelligenza e la generosità dei compagni e delle compagne che se ne sono, sin qui, presi cura. Non basta né serve aprirsi a questa o quella figura, mutuare in trentaduesimi strumenti come le primarie o, peggio ancora, replicare consunte sommatorie di piccole miserie. Se federazione dev’essere, sia piuttosto federazione di poleis e comunità di base che raccolgono dalla polvere la sfida di una cittadinanza europea da giocare in una nuova e inedita partita.

Abbiamo sempre imboccato, con convinzione, vie potenzialmente maggioritarie, per governare il cambiamento. Non è bastato a scrollarci integralmente di dosso i rituali della vecchia politica, e quel «voluto tacere, sorvegliato parlare, denigrare senza odio, esaltare senza amore…» che Pasolini rimproverò, in un tempo lontano, ai propri compagni.

Questo è il nodo. Fino ad oggi abbiamo, anche sinceramente e generosamente, tentato di scioglierlo. Ora si tratta di tagliarlo.

* delegato di Bologna al congresso di Sel