Olandese, universalmente noto come uno dei maestri della fusione tra immagine e suono, Frank Scheffer è da considerarsi oggi uno dei massimi registi in attività nel poco frequentato genere del film d’arte di argomento musicale. Il regista ha da poco presentato la sua trilogia sulla musica occidentale moderna (The One All Alone, in cui si confronta con il tema del tradurre in immagini la musica di Edgar Varèse, Attrazione d’amore, ritratto e allo stesso tempo film-saggio su Riccardo Chailly e Conducting Mahler, sulla teoria della direzione d’orchestra di brani mahleriani), all’interno di Cinergia, rassegna diretta da Marco Müller che, dopo il ciclo autunnale dedicato alle corrispondenze di linguaggi creativi nel cinema indiano, continua la sua mappatura di mondi percettivi (teatro-cinema e musica-cinema) fra le geografie di alcuni cineasti europei “fuori norma” e i maggiori registi teatrali italiani (dopo Romeo Castellucci, Luigi de Angelis e Chiara Lagani, il prossimo appuntamento sarà con Marco Martinelli e Ermanna Montanari del Teatro delle Albe).

Frank, i tuoi lavori spaziano da Frank Zappa a John Cage fino a Luciano Berio. Come avviene la scelta di perlustrare l’universo musicale di un compositore rispetto a un altro?

Tutta la musica prima dell’invenzione del cinema per me è difficile da “concepire” come materiale di lavoro perché non sento una relazione diretta tra i due linguaggi. Io non interpreto la musica, cerco le relazioni e le giustapposizioni strutturali fra musica e cinema. Osservo le note, studio la metrica e la trasformo in immagini, è un procedimento che potrebbe essere comunque fatto con la musica prima del 1895 ma così la connessione fra le due arti verrebbe a mancare. Questo è il mio sentire, non pretendo certo di renderlo universale. Per me concepire un film è attuare quello che io chiamo “metodo di trasformazione”, concetto mutuato dalla lettura de Lo spirituale nell’arte di Vassily Kandinsky dove la musica veniva definita come la più ricca fra le muse, quella guardata con invidia da tutte le altre. Un esempio calzante può essere il mio The Final Chorale su le Sinfonie per strumenti a fiato di Igor Stravinskij, un’opera già “montata” sullo spartito, come se fosse cinema su carta. Stravinskij usa un segnale all’inizio, una fanfara, il coro e li monta tutti insieme come se fosse un film. La struttura dunque diventa montaggio e io ho lavorato nello stesso modo, attaccando “gruppi” di materiale filmico a quelli di materiale musicale. Materiali d’archivio, ad esempio, sono congiunti alla fanfara musicale e quando hai questa modalità d’azione, l’analogia fra musica e cinema diventa chiara. Il cinema è un’esperienza temporale, di memoria, di ritmo e di struttura e quello che faccio è tuffarmi letteralmente nella musica. Non mi interessa il dato biografico del compositore ma cosa c’è dentro la musica, come quando si sbuccia una cipolla, e poi mi concentro su come trasformare questo nel mio campo, ovvero il cinema. Non è una transizione ma trasformazione e soprattutto cambia e si declina in maniera diversa per ogni compositore che affronto.

Nei tuoi film il dato biografico è assente ma allo stesso tempo si avverte la materializzazione di un “inconscio compositivo” profondo…

Five Orchestral Pieces, il film che ho fatto su Arnold Schönberg non so come sono riuscito a “farlo” perché Schönberg materializzava un sentimento dionisiaco, non apollineo, e certe composizioni, come l’Op.16, furono prodotte in un’epoca di grandi drammi, personali e artistici. Nel 1908 il cubismo nell’arte, la rottura delle regole letterarie, l’emancipazione della musica correvano parallelamente ai suoi drammi privati. Ho provato ad accordare il film cercando di seguire queste emozioni contrastanti.

Conducting Mahler invece è davvero sorprendente nel suo far abitare, nel corpo della macchina da presa, il fantasma del compositore, come se osservasse, nascosto fra l’orchestra, il presente…

Sono partito dalla semplice osservazione che quando vediamo i concerti in televisione, la regia predilige i musicisti e questo per me non ha senso perché bisognerebbe identificarsi con l’orchestra. Ascolti la musica ma non ne fai parte e la musica di Mahler è così personale, intima. Così ho cominciato a riflettere su cosa poter fare con la macchina da presa e il risultato è questo film di lunghi primissimi piani, usando lenti speciali per avvicinarmi, di direttori d’orchestra, solitamente mostrati di spalle, dove si percepisce chiaramente l’effetto della musica sui loro volti. Mahler dunque si reincarna anche in loro ed è così che lo spettatore può riuscire a entrare nell’universo del compositore.

In The One All Alone invece alterni le voci del presente a echi visivi del passato e personali…

The One All Alone, insieme a un altro su Frank Zappa, è l’ultimo film del mio ciclo sulla musica occidentale moderna e questo è importante da sottolineare perché quando avevo 14 anni, nel disco di Zappa Were Only in It for the Money, lessi all’interno dell’album una frase di Varèse del 1921 che mi cambiò la vita “I compositori di oggi si rifiutano di morire” Queste parole mi hanno affascinato così tanto che il mio intero corpus filmico ritorna sempre a quella singola frase. Tornando al film, essendo la musica di Varèse così personale, come “metodo di trasformazione” ho usato immagini dei miei filmini familiari ma queste immagini non sono necessariamente relazionate a Varèse, sono in giustapposizione dialogante. Le mie immagini parlano alla musica, non la mostrano e più la musica è astratta, più posso essere suggestivo e forse avvicinarmi così alla vera natura della musica.

A proposito di essenza, nonostante i tempi e la “destinazione”, prediligi girare in pellicola, come se per te fosse l’equivalente musicale di uno spartito…

Girare in pellicola per me è di fondamentale importanza. Il recente sviluppo del digitale mira a creare macchine capaci di avvicinarsi sempre di più a quello che noi chiamiamo “reale”. Dal mio punto di vista lo trovo poco interessante perché penso che l’unica realtà che puoi vedere in un film è lo schermo fisico, tutto il resto è un’illusione. Perché provare a rendere reale qualcosa che non lo è nella sua essenza? Quello che faccio io è trasformare la realtà in una forma che permette di lavorare sull’immaginario. Tempo fa ho ripreso dei bambini in Cina che guardavano un teatro di burattini. Guardavo i bambini ed erano “dentro” la storia perché osservavano più i fili che le marionette. Ho capito così la differenza fra pellicola e digitale. La pellicola ti spinge a creare, a riempire il vuoto con l’immaginazione, sei stimolato a creare, un po’ come accadde per l’evoluzione dell’essere umano: l’arte delle incisioni rupestri non imitava la vita esterna, era una necessità interiore e “creare” quest’arte aiutò a sviluppare l’evoluzione umana. L’arte dunque non è un lusso, è essenza, futuro, è cibo per sopravvivere.