Complici anche la scarsa spigliatezza televisiva e l’assenza di spettacolarità dell’uomo, la svolta domenicale di Paolo Gentiloni è risultata assai meno clamorosa di quanto non avrebbe meritato. Di svolta però si tratta e su più fronti. L’annuncio che il governo intende arrivare a scadenza naturale della legislatura certifica la resa di Renzi sull’unico punto che gli sia stato a cuore dalla notte del referendum in poi: la corsa per votare presto. L’impegno a tagliare le tasse per le imprese è un segnale inviato all’Europa, che scalpitava perché il governo italiano si decidesse ad accendere il motore. Non è certo casuale che quell’impegno sia arrivato il giorno prima del vertice di Versailles convocato per preparare la conferenza del 25 marzo a Roma. Ma è anche la fine della ambiguità per cui Gentiloni per primo si comportava come capo di un “governo ad interim”, nato con la missione di fare il meno possibile.

Il cambio di marcia, almeno nelle intenzioni se non ancora nei fatti, è dunque rilevante. Segna una ennesima sconfitta per Renzi, che puntava su un’agenda opposta, e un ulteriore passo nel processo di sganciamento dal leader in decadenza da parte di un partito e di un governo che con quel leader sanno però di doversi ancora confrontare e non possono procedere, per ora, senza tener conto della sua ingombrante presenza. La sterzata di Gentiloni è stata “autorizzata” da un Renzi resosi conto di aver perso, salvo miracolosi incidenti parlamentari, la partita per la fine anticipata della legislatura. Ma il suo semaforo verde non va preso come una cambiale in bianco e per questo, probabilmente, il governo tutto è costretto a fare quadrato intorno all’uomo di fiducia del segretario uscente, Luca Lotti.

Nel partito la guerra è già all’ultimo sangue. I renziani temono sia la sconfitta, cioè un risultato delle primarie al di sotto del 50% che equivarrebbe a una condanna a morte politica per il capo, sia la non-vittoria, un successo di misura che consegnerebbe il nuovo segretario nelle mani dei baroni del partito. In questo scontro che non permette più posizioni mediane, il governo è relativamente al riparo. Renzi stesso si rende conto che un totale fallimento ricadrebbe su tutto il Pd e dunque anche su di lui. Ma il suo è un via libera pieno di dubbi e sospetti, sempre esposto a possibili ripensamenti. Lo “sgarbo” di un licenziamento di Lotti sposterebbe in un baleno il governo nel folto gruppo dei nemici, con conseguenze esiziali per chi, già su basi fragili, deve affrontare passaggi difficili come la correzione della manovra e la lunga trattativa con la Ue sulla prossima legge di bilancio.

In ogni caso il voto sulla mozione a 5 Stelle contro Lotti, che dovrebbe essere calendarizzata addirittura a fine mese, resta un passaggio pericoloso. Se Lotti si salvasse solo grazie al supporto di Berlusconi la mazzata sarebbe comunque durissima e il governo ne uscirebbe più che mai fragile. Per fortuna di Gentiloni, però, gli scissionisti dell’Mpd non mirano a indebolire il governo. Per questo al momento sono decisi a chiedere le dimissioni di Lotti, per poi votare contro la mozione che lo costringerebbe a dimettersi. Presenteranno mozioni di censura. Useranno toni severi. Poi difenderanno col voto l’oggetto di tanti attacchi.