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La strettoia delle “nuove” larghe intese

La strettoia delle “nuove” larghe intese

La certezza si materializza a metà mattinata, quando gli zoom immortalano, nell’aula di palazzo Madama, il foglio che Gaetano Quagliariello tiene stretto nella mano destra, con scritti nero su bianco […]

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 3 ottobre 2013

La certezza si materializza a metà mattinata, quando gli zoom immortalano, nell’aula di palazzo Madama, il foglio che Gaetano Quagliariello tiene stretto nella mano destra, con scritti nero su bianco i nomi dei 24 senatori «responsabili» o «traditori», a seconda dei punti di vista, già pronti a voltare le spalle a Silvio Berlusconi. Il governo resta in piedi, il Pdl è spaccato, il Cavaliere è con le spalle al muro e sarà costretto all’ennesima, tragicomica giravolta. Il superfalco Denis Verdini, piangerà: missione fallita.

Il clamore della vigilia che annunciava la fine del «ventennio» e la «deberlusconizzazione» del governo Letta e in prospettiva della destra, non trova però riscontro in una giornata in cui prevale la sensazione di un falso movimento. Il premier Enrico Letta riesce a tenersi stretta una larga maggioranza. Fin troppo larga, però. Il dibattito si concentra sulla natura, di questa maggioranza. Quella numerica, osserva lo stesso presidente del consiglio, non è rilevante. Conta quella politica. Ovvero: se anche il leader di Arcore trafitto ha deciso di restare aggrappato ai polpacci delle colombe in fuga decise a liberarsi dell’ormai ingombrante fardello, e spera così di continuare a zavorrare anche le rinnovate intese con il suo sì in extremis alla fiducia, sappia che da oggi in poi sarà irrilevante e i colpi di coda della bestia ferita saranno destinati a fendere il vuoto. Non è così.

Che Enrico Letta abbia vinto la mano e ne esca rafforzato è indubbio. Ha sfidato il Caimano e lo ha portato fino alla prova dell’aula dove, in diretta tv, si è dovuto piegare all’evidenza dei numeri e alzare bandiera bianca di fronte alle macerie del suo partito. Ma l’operazione lungamente tessuta dall’ex vice di Pier Luigi Bersani – il progetto neocentrista che avrebbe dovuto vedere la luce proprio a partire dalla nuova maggioranza deberlusconizzata – per ora non è riuscita e non sembra destinata ad avere successo. Parlano chiaro l’esitazione del segretario Angelino Alfano, che alla fine del breve intervento dell’ex capo indiscusso lascia i banchi del governo e si inabissa, e le dichiarazioni di Maurizio Lupi fuori dall’aula: dei gruppi autonomi annunciati con le fanfare da Roberto Formigoni non c’è più bisogno, perché «noi abbiamo lavorato per l’unità e non per una nuova maggioranza». Una nuova formazione «moderata» in prospettiva alleata al Pd non è nella mente delle «colombe» pidiellin-democristiane. I precedenti del resto non autorizzano azzardi, e bisognerebbe in ogni caso fare i conti con l’esito del congresso dei democratici.

La partita di Alfano era e resta infatti giocata nel campo della destra, è lì che, pesantemente ridimensionati i falchi con il sì alla fiducia pronunciato dal Cavaliere, il leader che non aveva il «quid» conta di andare fino in fondo, eventualmente con la benedizione del suo padre politico. E se anche Alfano e Lupi dovessero alla fine aderire ai gruppi autonomi, la prospettiva è quella di restare agganciati a una pur ridimensionata componente «forzista».

La nuova maggioranza politica salutata da Letta, insomma, non c’è. E se anche ci fosse, non sarebbe un bel vedere: ancorché «diversamente» o post, i ministri pidiellini e il loro seguito continuano a rappresentare la destra berlusconiana. Con quella si dovrà fare i conti anche nella stesura della legge di stabilità. E i gruppetti di peones aggrappati a Letta per garantirsi una sopravvivenza non autorizzano certo a parlare di «governo stabile».

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