«Rebooter è forse l’ultimo titolo a cui uno vorrebbe aspirare», dice JJ Abrams ed è solo in parte una battuta, riferita alla propria nomea come specialista in aggiornamento di franchise, il «riavvio» di titoli seriali come Mission Impossible e attualmente Star Trek, di cui ha firmato l’ultimo episodio, Into Darkness, (nelle sale italiane il 13 giugno). Reputazione ulteriormente consolidata con l’annuncio che gli verrà affidata anche la nuova trilogia di Guerre Stellari, cosa che ha determinato praticamente un’anomalia spazio-temporale nell’universo «nerd» diviso in rispettive tifoserie antagoniste di «Trekkies» e fedelissimi di Star Wars. L’accentramento dei due più influenti filoni pop-fantascientifici di Hollywood nelle mani di un solo uomo ha suscitato qualche sussulto fra lo zoccolo duro, ma nella realtà non poteva esserci scelta più logica di Abrams per ridare vita anche alla franchise stellare per conto della Disney che ne ha rilevato i diritti da George Lucas per una somma favolosa.

Nessuno ha dimostrato più di lui infatti di saper reinterpretare per le nuove generazioni un certo tipo di prodotto sci-fi/mystery/thriller metabolizzato in anni «formativi» della cultura pop, talento particolarmente evidente nella produzione televisiva di serie come Alias, Lost e Fringe che sdoganano con gran successo formule narrative di programmi che hanno fatto scuola come Twilight Zone e In Search Of. La sua casa di produzione, la Bad Robot a Santa Monica è un mini-studio dall’aspetto più simile ad una start up tecnologica, diventata uno dei centri nevralgici di Hollywood. L’edificio di mattoni a due piani su Olympic boulevard è un officina da cui l’ipercinetico Abrams balza da un progetto all’altro e con uno staff di una quarantina di persone appena, esercita una spropositata influenza di tastemaker. Il posto è anche una specie di museo pieno di cimeli, oggetti di scena, manifesti di film preferiti, modellini di alieni, sceneggiature storiche – una collezione curata con dovizia di collezionista cinefilo, ma soprattutto di irriducibile appassionato.

E sul muro spiccano incorniciate lettere di alcuni idoli assoluti, fra cui Rod Serling, inventore di Ai Confini della Realtà e Gene Roddenberry l’autore, appunto, di Star Trek, la serie originale che quest’ultimo film tenta simultaneamente di omaggiare e aggiornare. Il proseguimento dell’operazione del film, che tre anni fa ha invertito la deriva «barocca» delle successive serie tv, e la parabola discendente dei 10 film per riscoprire i personaggi originali Kirk, Spock, Sulu, Bones, Uhura e Pavel Chekov, ammicca in parte all’amato kitsch della prima serie riproponendolo in chiave drammatica attualizzata.

Come suggerisce il titolo Into Darkness aspira all’operazione compiuta da Christopher Nolan in Batman, pur senza raggiungere lo stesso livello di cupa gravitas (che i personaggi e il registro di Star Trek non permettono), Abrams vira tuttavia la tonalità su tinte decisamente più fosche grazie soprattutto al personaggio di John Harrison, l’antagonista interpretato da Benedict Cumberbatch, l’attore inglese noto soprattutto per il revival di Sherlock Holmes sulla Bbc (prossimamente interpreterà Julian Assange nel Fifth Estate di John Condon).
Il personaggio è ispirato in parte alla lucida follia del Joker nel Batman di Nolan, e Cumberbatch è un attore capace di elevare il tasso di pericolosità di ogni scena in cui appare con un intensità che ci auguriamo possa sopravvivere anche all’inevitabile scempio del doppiaggio.

La trama, come faceva già il precedente film, riporta l’equipaggio dell’Enterprise sulla Terra dove la storia ruota attorno alla campagna terroristica dell’enigmatico Harrison contro la Federazione Planetaria, quella sorta di Nato galattica immaginata da Roddenberry negli anni della guerra fredda. Come ha scritto di recente Manhola Dargis la sindrome da 11 settembre in molti blockbuster, da Transformers a Iron Man, è ormai diventato un semplice pretesto per le scene digitali ad effetto, un pretesto poco più che scenografico per far crollare grattacieli. Nello Star Trek di Abrams come, in maniera più compiuta, nei film di Nolan, sono le reazioni della società «democratica» il vero oggetto centrale della trama, almeno nella misura in cui lo permette il format della serie. Di questo e molto altro abbiamo parlato con l’autore, regista e produttore assurto a custode e filologo dell’immaginario collettivo.

Come si presentava il progetto per questo «Star Trek Into Darkness»?

L’idea era di fare un film che funzionasse anche per chi non conosce la serie originale, o magari non ha visto il film del 2009. Anche per chi non è un «trekkie» insomma. Detto questo sappiamo tutti quanto ci tengano i veri appassionati, li abbiamo incontrati, gli vogliamo bene e naturalmente vogliamo tener fede allo spirito originale della serie, e questo significa azione e avventura ma anche mantenere l’aspetto filosofico e «intellettuale» di Star Trek per cui ogni storia è imperniata attorno ad un dilemma morale che i protagonisti devono affrontare.

Quelle di Roddenberry erano notoriamente parabole sul suo mondo contemporaneo. Nella vostra storia la Federazione subisce l’attacco di un antagonista che usa i metodi del terrorismo, come gli attentati alle grandi città della Terra. È una coincidenza?

Premettendo che il film è pensato innanzitutto come intrattenimento, Star Trek ha sempre avuto la straordinaria capacità di veicolare temi di grande rilevanza. La nostra non è stata una scelta strategica, una linea politica a priori; volevamo trattare temi capaci oggi di un effettiva risonanza emotiva. Quindi l’idea di un personaggio «terrorizzante», proprio in quanto indistinguibile, qualcuno di «homegrown», che vive fra di noi, che ci assomiglia ma costituisce anche una minaccia aliena, è diventata naturale. Inoltre la società stessa è in un certo senso responsabile per le sue azioni, e questo ci è sembrato particolarmente importante. Invece di un Ming Lo Spietato qualunque, un cattivo da pantomima che si arriccia i baffi con cipiglio minaccioso, volevamo qualcuno dall’aspetto ordinario senza tatuaggi, strane maschere o costumi stravaganti. È un tizio nella folla con una maglia nera, un tipo ordinario capace di essere terrificante con le sue azioni e le sue ragioni, e questa è una figura sinistramente familiare nei nostri tempi. Kirk poi si trova ad affrontare il dilemma di come combatterlo, di quanto sia lecito trasgredire le regole morali per far fronte alla minaccia, dovendo così scegliere nell’opposizione tra falchi e colombe. Sono il genere di questioni tradizionalmente trattate da Star Trek, e appunto più attuali che mai.

I fan della serie vi fanno mai pressioni? Ricevete consigli, lettere minatorie … ?

Questo no ma sicuramente quando abbiamo cominciato a lavorare sul primo film c’era una certa inquietudine rispetto alla possibilità che i veri fan potessero non accettare la nostra versione, che la considerassero sacrilega, dopo tutto stavamo ricreando dei personaggi iconici. E invece la gran parte di loro hanno accettato questa nuova incarnazione. Ci sarà sempre quello che non è soddisfatto che vuole più azione o più dialogo e via dicendo, e nessuno è obbligato a vedere il film. Posso solo dire però che la nostra motivazione era proprio il rispetto dei fan quali siamo anche noi. Intendo avvicinarmi a Guerre Stellari con lo stesso atteggiamento ottimista, di riuscire cioè a conquistare anche gli appassionati più scettici. Stiamo lavorando con un gruppo di persone straordinarie compresi Larry Kasdan, Katherine Kennedy, Michael Arendt, Simon Kinberg … Mi rendo conto dell’opportunità che ci troviamo di fronte, e credo che riusciremo a fare qualcosa di buono.

Allo stesso tempo è innegabile che per alcuni fan «Star Trek» e «Star Wars» siano come l’acqua e l’olio, assolutamente incompatibili.

Certo sono completamente diversi ma perché non dovrebbero potere coesistere su differenti lunghezze d’onda? Hanno diverso tono, storia, temi , personaggi, approcci anche del tutto diversi. Al di la del fatto che in entrambi ci sono dei bipedi, dei mondi altro, delle astronavi, non potrebbero essere più distanti. Ne sono ben cosciente ma penso che sarò capace di mantenere questa differenza.

Nessuna titubanza?

Guardi, inizialmente avevo deciso di non considerare nemmeno l’ipotesi di Guerre Stellari. Poi la cosa da teorica è improvvisamente diventata molto concreta quando ho incontrato Kathy Kennedy (storica produttrice di Spielberg passata a dirigere la Lucas film, ndr.). L’opportunità creativa che mi veniva offerta era troppo fantastica! E poi non faccio mai discriminazioni sull’origine di una storia; forse sono raffinati una sceneggiatura originale o l’adattamento di un romanzo che una serie televisiva, ma cioè che conta alla fine è l’emozione che riesce a accendere in te. Il mio film, Super 8, nasceva dalle emozioni che da bambino mi avevano trasmesso i film di Steven Spielberg e dalla voglia di replicarle. Li puoi chiamare «reboot» ma in fin dei conti si tratta di raccontare storie che ti appassionano davvero. E si vede subito la differenza fra un remake, frutto di una strategia di marketing, e film come il Batman di Chris Nolan o Avengers di Joss Whedon, che vivono e respirano i propri personaggi.

Ma il continuo ripescaggio di personaggi noti non rischia di rendere il cinema un esercizio autoreferenziale?

Non so. Nel mio caso non si tratta certo di una strategia la scelta di rivisitare film già esistenti. Casualmente è avvenuto che mi si presentassero queste opportunità mentre nelle mie serie tv come Felicity o Alias, Lost e Forever Young ho lavorato su trame originali. É un fenomeno che in riguarda Hollywood oggi; molte delle proposte più innovative arrivano dalla fiction televisiva. Penso che in futuro accadrà sempre più spesso visto il loro successo.

Sarà la terza volta che si trova a «modulare» materiale preesistente, un’operazione delicata. E rischiosa.

Vero, ma ogni volta è prevalsa l’ispirazione sulla soggezione. La verità è che sia con Mission Impossible che con Star Trek, e ora con Guerre Stellari mi sono trovato a dirigere storie tutte più grandi di noi e con molta memoria alle spalle. Poter lavorare su Guerre Stellari lo definirei soprattutto un onore surreale. Purtroppo non sono in grado di dirvi molto su ciò che stiamo pensando perché sarebbe prematuro. Posso dire invece che per quanto riguarda Star Trek il lavoro più duro è stato fatto nel primo film, quando si è trattato di trovare il giusto registro. Per Into Darkness l’obbiettivo principale era di fare un film più «emotivo», più grande certo, con più azione ma mai gratuita. Volevo vedere parti della nave che non abbiamo mai visto, e passare più tempo sulla Terra del 23mo secolo. Nel primo film ne abbiamo avuto qualche scorcio, come le shuttle che partivano da San Francisco; volevo tornare in quei luoghi, e poi in una Londra futuribile, oltre, naturalmente, che su qualche pianeta alieno.

Cosa considera tra le sue maggiori ispirazioni?

Le cose con cui sono cresciuto da bambino, film, libri, tv, radio. Ricordo che ascoltavo gli sceneggiati radiofonici di E.G Marshall, il CBS Mystery Theater. Poi Twilight Zone la serie originale di Batman con Adam West. E poi, evidentemente, Guerre Stellari visto all’età di 11 anni: monumentale. Ma anche la prima Mission Impossible televisiva a cui in parte mi son ispirato quando scrivevo Alias. Il fatto che poi abbia potuto lavorare ad alcuni oggetti dell’immaginario che mi hanno formato è semplicemente straordinario. La mia ambizione, infatti, è stata sempre quella di riuscire a avvicinarmi alla grandezza degli originali.