David Graeber è l’autore di uno dei testi chiave del pensiero critico di questi ultimi anni. Il suo Debito, uscito nel 2011, nel pieno della crisi scatenata dall’ondata di insolvenze dei mutui subprime e rapidamente estesasi alle banche e ai debiti sovrani, ha assunto il significato non solo di un’indagine antropologica quanto di una diagnosi sui meccanismi estrattivi di un presente dominato dal capitale finanziario e dalle sue dinamiche di valorizzazione. Contemporaneamente, Graeber, nelle vesti di militante, è emerso come figura di spicco di quell’Occupy! che da Wall Street si è diffuso per contagio, segnando il ritorno in grande stile della politica radical negli Stati uniti. Ed è proprio dalle vicende di quel movimento che parte il libro di Graeber dal titolo Progetto democrazia. Un’idea, una crisi, un movimento (il Saggiatore, pp. 282, euro 19,50).

I fatti, i problemi e le forme: così potrebbero essere sintetizzate le tre parti che scandiscono il volume. Si inizia con una narrazione incalzante, dall’interno, dei passaggi che, sulla spinta della potenza destituente espressa dalle piazze nordafricane, hanno condotto all’aggregazione nomade insediatasi poi a Zuccotti Park. Tutto inizia con l’appello diramato da «Adbusters», «Occupy Wall Street!», indirizzato a non si sa chi, destinato a rivelarsi una profezia che si autoavvera. I tentativi di egemonizzazione delle forze politiche organizzate si rivelano inefficaci a fronte di una composizione imprevista, fatta di biografie eterogenee segnate dalla crisi, che esprime un’esigenza di orizzontalità che non può essere soddisfatta dal ricorso alla rituale sequenza comizio e corteo o alla redazione di una lista di proposte da affidare ai buoni uffici della sinistra democratica.

Costruzione del consenso

Sulla scia di piazza Tahrir e dell’esperienza spagnola degli indignados si impone la scelta dell’occupazione a oltranza, con la creazione di uno spazio pubblico non metaforico ma materiale, dove raccontarsi, discutere, confrontarsi e, soprattutto, offrire visibilità a quel 99 percento che, in base a una felice semplificazione fattasi slogan, denuncia l’oppressione politica ed economica dell’uno percento. Ricorrendo a un’incisiva serie di domande retoriche, Graeber focalizza l’attenzione sulle principali problematiche poste dalle vicende del movimento: come è riuscito ad affermarsi e a catturare l’attenzione dei media, quali sono state le relazioni con le forze politiche organizzate, in che modo è riuscito a «bucare» il muro dei media e a coinvolgere individui del tutto estranei agli ambienti militanti, come si è rapportato alle forze politiche organizzate, come è riuscito a riportare al centro del dibattito pubblico statunitense il tema delle ineguaglianze economiche.

Nella narrazione di Graeber emerge come l’assemblea nell’esperienza di Occupy! si presenti non solo come istanza decisionale ma come vero e proprio mezzo senza fine. L’esigenza di orizzontalità e la critica nei confronti delle tradizionali forme della rappresentanza politica trova il proprio correlato nell’attivazione di un complesso apparato istituzionale, dalle plurime articolazioni, volto a smarcarsi dal principio della decisione a maggioranza per muoversi nella prospettiva della costruzione del consenso. Si tratta di quelle riunioni dall’aspetto bizzarro, nei confronti delle quali non sono mancate grevi ironie, in cui il ricorso alla parola, rigidamente contingentato al fine di offrire a tutti la possibilità di intervenire, si accompagna all’utilizzo di una specifica gamma di segni e gesti convenzionali nonché di modalità operative volte a orientare il dibattito in direzione del superamento delle contrapposizioni nella prospettiva di una sintesi il più possibile inclusiva. Graeber si impegna a descrivere in dettaglio il funzionamento di tali tecniche, illustrando il ruolo svolto da figure come il facilitatore, il portavoce, l’addetto alla misurazione degli umori o da istituti quali il blocco. Si evidenzia, inoltre, come tali modalità di organizzazione assembleare siano state mutuate dall’universo religioso dei quaccheri, che a lungo avevano custodito il segreto riguardo alle tecniche adottate per giungere a soluzioni unanimemente condivise dal gruppo. Se per i quaccheri l’attualizzazione del consenso costituisce un’esperienza religiosa che materializza la presenza di Cristo nella comunità, la sua versione secolarizzata, nella prospettiva di Graeber, si farebbe portatrice di una promessa di rinnovamento dei quadri della democrazia diretta.

Come è stato notato da più parti, mentre la fase che da Seattle si estende a Genova si era incentrata soprattutto sul tema dell’eguaglianza e su una dimensione nomade, attraverso il convergere altermondialista nei luoghi di celebrazione dei riti mondani del potere economico e finanziario, il ciclo di lotte più recente si è caratterizzato oltre che per una tendenza al radicamento locale anche per la centralità del richiamo alla democrazia. Nei paesi del Nord-Africa tale richiesta assumeva il senso di una ribellione nei confronti di regimi dispotici. Ma la rivendicazione è avvenuta anche in paesi che i politologi sono soliti chiamare «democrazie mature».

L’invito ad andarsene allora era rivolto non al tiranno di turno ma a élite screditate dalla gestione della crisi in nome dell’austerità e del salvataggio, con ogni mezzo necessario, di banche ed altri soggetti finanziari. E tutto ciò non in nome di altre forze partitiche, da cui attendersi una politica diversa, ma a partire da una richiesta di riappropriazione della democrazia contro la confisca di essa che sarebbe stata operata dalla corruzione, dai poteri tecnocratici e dagli interessi economici dominanti. In generale, si può affermare che la crisi ha svolto il ruolo di acceleratore di un processo di delegittimazione delle forme della democrazia rappresentativa in atto da qualche decennio, a partire dal declino dei partiti di massa.

In sintesi, la definizione della democrazia à la Schumpeter, intesa come semplice meccanismo di selezione e concorrenza fra élite, dai manuali di scienza della politica sembra essersi riversata nel senso comune senza però che il cittadino medio abbia mutuato il distacco compiaciuto degli scienziati politici. Indice di tale disaffezione non è solo il continuo calo dei votanti alle elezioni ma anche l’imperversare delle retoriche sulla contrapposizione fra politica e società civile o, nel nostro paese, la denuncia compulsiva della «casta».

Tra cybercultura e carisma

A ciò, si deve aggiungere la diffidenza con cui movimenti si sono rapportati in questi anni alla dimensione della rappresentanza politica e i ripetuti fallimenti da essi incontrati nell’investite le loro istanze, direttamente o per interposta persona, nel processo elettorale.

Proprio nel momento in cui la rivendicazione della democrazia si fa più urgente, anche all’interno di ambiti culturali e politici un tempo inclini a privilegiare altre parole d’ordine, la democrazia «reale» attraversa una crisi di legittimazione sempre più forte, a cui le soluzioni tampone del plebiscitarismo, della personalizzazione o dell’ingegneria elettorale sembrano offrire una risposta sempre più precaria. A fronte di un simile scenario, al movimento Cinque stelle va riconosciuto il merito di avere colto il problema, ossia la sclerosi dei meccanismi della democrazia rappresentativa, impegnandosi a proporre un’alternativa.

Tuttavia, il loro tentativo di iniettare elementi di democrazia diretta nelle istituzioni rappresentative attraverso un mix di cybercultura anni Novanta, leaderismo carismatico e logica proprietario-aziendale ha ben presto, forse immediatamente, mostrato la corda, offrendo una conferma a quelle critiche che, fin dai tempi di La costituzione degli ateniesi dello Pseudo Senofonte, individuano nella democrazia diretta l’anticamera del dispotismo e il contesto ideale per la manipolazione dei demagoghi.

A fronte di un simile scenario ci si potrebbe limitare a invocare in termini quasi metafisici l’incompatibilità della rappresentanza con lo Zeitgeist del presente, dando per scontata implicitamente la sua perfetta aderenza ai contesti di un passato più o meno recente e rimanendo sul vago quando si tratta di indicare i possibili dispositivi istituzionali verso cui indirizzarsi. Non è questa la strada scelta da Greaeber che, nella parte centrale del suo libro, si impegna a individuare in termini positivi i contenuti istituzionali con cui riempire la richiesta di democrazia che i movimenti di questi ultimi anni hanno agitato con forza.

Punto di partenza è la classica contrapposizione fra democrazia degli antichi e dei moderni di cui Graeber propone una rivisitazione alla luce dell’esperienza americana. Nel progetto repubblicano e federale dei Founding fathers è individuato il tentativo di stabilire un regime misto funzionale all’affermazione di un’aristocrazia elettiva in grado di arginare le declinazioni alternative del concetto di democrazia diffuse a livello popolare e alimentate dal riferimento a pratiche di deliberazione collettiva provenienti da ambiti assai diversi che vanno dalle navi dei pirati alle tribù dei nativi. Lo sguardo poi si allarga alle forme di elaborazione del consenso partecipato evidenziate dalle ricerche etnografiche in varie parti del globo, da Bali al Madagascar.

Nella morsa della finanza

La posta in gioco, in proposito, risiede non solo nel riconoscimento delle radici molteplici dell’idea di democrazia, contro l’idea secondo la quale si tratterebbe di un prodotto interno solo alla storia occidentale, quanto nella sua dissociazione dal principio del voto a maggioranza a cui la incardina proprio la tradizione che in Atene individua la propria origine. E proprio qui sta la chiave, a parere di Graeber, per rilanciare una scommessa sulla democrazia diretta. In tal senso, le pratiche che hanno innervato l’esperienza di Occupy!, così come quelle di altri movimenti degli ultimi anni, assumono il senso sia di indizio circa la diffusione di una sensibilità orizzontalista sia di anticipazione circa le modalità per offrire a essa una traduzione politica.

David Graeber è un antropologo, e un antropologo anarchico. Per valutare il suo discorso è bene tenerne sempre conto, magari facendo riferimento a un suo precedente volume, dal titolo appunto di Frammenti di antropologia anarchica (Eleuthera). Di conseguenza, non stupisce la centralità strategica che Graeber attribuisce a trasformazioni lente di lungo periodo, antropologiche appunto, che assumono una temporalità che eccede quella della dimensione più immediatamente legata alla congiuntura politica. Detto ciò, si possono nutrire perplessità circa l’estendibilità, nel tempo e nello spazio, al di là di contesti locali o non segnati dall’entusiasmo del momento «insurrezionale», delle forme di democrazia diretta non basata sul voto a maggioranza. Se da una parte si sfugge alla semplificazione di risolvere la questione della partecipazione orizzontale attraverso il determinismo tecnologico, come avviene, a livelli diversi di intensità più o meno elevati, nelle varie teorie sulla webdemocracy, dall’altra l’accento posto sulla condivisione decisionale e sui lunghi processi di produzione partecipata del consenso sembra rimandare a un panassemblearismo sui cui effetti potenzialmente opprimenti non manca di spendere qualche parola lo stesso Graeber. Inoltre, non si deve dimenticare come la crisi che investe le forme «reali» della democrazia rappresentativa rimandi a una più generale crisi della politica e delle sue capacità di presa e direzione su una geografia multiscalare e su regimi parziali ad elevato grado di autonomia, in primis quello dell’economia e della finanza. Si tratta di un’impasse con cui in questi anni hanno dovuto fare i conti anche i movimenti. Per superarla, l’esercizio locale di forme di democrazia radicale e la loro messa in rete costituisce senza dubbio un passaggio fondamentale ma non sufficiente.

Per chi non ha la pazienza di affidarsi ai tempi lunghi del cambiamento antropologico risulta necessario muoversi su più piani, spaziali e sistemici, destituenti e costituenti, rispetto ai quali un’unica ricetta non può bastare.