Scontiamo un ritardo, non solo culturale e politico ma addirittura cognitivo. E forse ce ne rendiamo conto adesso, pagandone così ripetutamente il prezzo. Per tutta la storia del Novecento abbiamo identificato nella dimensione Stato-nazionale lo spazio per eccellenza del conflitto. A partire da quello sociale, che si è articolato proprio nel confronto antagonistico, o competitivo, con attori e soggetti, pubblici e privati, intesi di volta in volta come interlocutori o avversari, accomunati comunque dall’appartenere alla medesima sovranità.
L’identità di classe, il passaggio alla marxiana classe per sé, laddove sussisteva, ha storicamente trovato nella dimensione nazionale il punto di arrivo e non quello di partenza. Tutto ciò malgrado la dimensione antitetica tra la sfera del produrre, intesa come spazialmente illimitata, del pari alla condizione di alienazione di chi è chiamato a lavorare nelle medesime condizioni, o in situazioni similari, in luoghi molto diversi, e l’illusorietà di un’identità rigidamente ancorata al territorio. Quest’ultima, quindi, a sua volta legata alla transitorietà del ruolo dei confini, destinati ad essere continuamente rimessi in discussione dalle trasformazioni che contraddistinguono l’evoluzione capitalistica in ciò che chiamiamo «contemporaneità».
In età di globalizzazione conclamata, lo scoprire sulla propria pelle che l’unico internazionalismo operante sia quello dell’accumulazione di ricchezza, senza patria né bisogno di radicamento, è uno scacco nella vita delle persone così come delle loro intelligenze. Dopo di che, il punto da cui partire per cogliere quest’ordine di problemi, è ancora una volta la Prima guerra mondiale. Vero e proprio laboratorio, nonché ricettacolo, di sensazioni, idee, umori ma anche esperienze e saperi che hanno condizionato un secolo intero. Poiché in essa si incrociano, si ibridano e si miscelano moventi che accompagnano l’epoca fordista per intero, fino alla sua consunzione, in Europa, con il declino del bipolarismo.

Apologia del conflitto

Rievocare la Grande guerra ha quindi senso se ci si pone in quest’ottica, dove il connubio tra massa e produzione è consustanziale a quello tra partecipazione e mobilitazione non meno che alla dialettica tra il limite e il suo superamento. La stessa pratica di potere conosce con essa un mutamento, segnando il sostanziale anacronismo del sistema a democrazia oligarchica, su cui il liberalismo europeo aveva costruito le proprie fortune durante il lungo Ottocento.
Da ciò, come ben sappiamo, sarebbero derivati sia il modello rivoluzionario incarnato dal bolscevismo che quello reazionario dei totalitarismi fascisti. Le cariche dirompenti dell’uno e dell’altro non potevano deflagrare in assenza di una mitografia e di un’apologia del conflitto come sintesi delle pulsioni più forti, e quindi maggiormente autentiche, della collettività. Non del conflitto sociale, che viene semmai anestetizzato, traslato, sublimato e disinnescato, bensì di quello che rimanda alla dimensione territoriale, e quindi nazionale, come fondamento della società.
Mario Isnenghi, nel suo Il mito della grande guerra (il Mulino, pp. 456, euro 14,00), ora ristampato, già quarant’anni fa si adoperava nel descrivere e nell’analizzare le sorgenti culturali, emotive ed affettive di uno spazio identitario collettivo che nello Stato nazionale trova le sue radici come anche la sua legittimazione ultima. Laddove il fondamento dello Stato era e rimane il monopolio della forza ma soprattutto il ricorso ad essa, attraverso la violenza legale praticata come regime di massa.
L’autore ricostruisce la trama culturale e antropologica che accompagna il suo dispiegarsi sui campi di battaglia della Prima guerra mondiale. Si trattava di un conflitto armato dove al rifiuto di alcuni si contrapponeva l’assenso degli altri, al dolente dissenso di una minoranza la fredda consapevolezza dei molti, all’irrazionalità delle distruzioni la razionalità del produrre per consumare tutto e subito. Laddove i capi opposti si compenetravano vicendevolmente, restituendoci, a distanza di tempo, una storia molto più complicata di quanto non avremmo voluto fosse stata. La medesima cosa sarebbe poi avvenuta con le successive riflessioni, operate in anni a noi più prossimi, sul fascismo e sui suoi esiti al contempo bellicosi e tragici.
Il testo di Isnenghi ha peraltro una sua storia, dettata non solo dal trascorrere degli anni dalla sua prima edizione. Uscito in tempi non sospetti, quando la separazione tra discipline era intesa come un suggello di professionalità, di fatto si segnalò da subito come eretico. Sul piano metodologico come su quello contenutistico.
Nel primo caso perché l’autore fa abbondante ricorso alla letteratura come a uno strumento testimoniale, mentre supporta le sue affermazioni con l’uso, a mo’ di riscontro oggettivo, di diari e documenti non ufficiali. Per la storiografia di allora, ancora fortemente ancorata alla storia politica, e quindi ad un positivismo di fondo, si trattava di un cedimento ad una piegatura soggettivista della comprensione del fatto bellico. Solo a distanza di un decennio e più sarebbero intervenute le opere, tutte in traduzione, di storici di area anglosassone e francofona, come Eric J. Leed o Paul Fussell, che avrebbero definitivamente svincolato il paradigma interpretativo dal debito verso una dimensione giocata sulla sola autonarrazione delle classi dirigenti.
Nel caso dei contenuti, invece, la frattura, che opera a tutt’oggi, è sui significati da attribuire alla vicenda bellica del 1915-1918. L’accentuata propensione verso una storia dei «vinti», che deriva dall’attenzione per la cultura delle classi subalterne, e si incontra ai giorni nostri con l’interpretazione del conflitto come «apocalisse», ossia come assurdità priva di senso, contrasta con l’impostazione di fondo che Isnenghi da sempre sostiene. Confrontarsi con una guerra di massa vuole dire svincolarsi da una lettura morale, che azzera il significato della partecipazione e del coinvolgimento collettivo riducendoli al solo aspetto manipolatorio, quand’anche esso sia particolarmente pronunciato, come nelle vicende belliche moderne.
La guerra, rileva l’autore, sta nel campo prospettico della contemporaneità non come sopravvivenza di trascorsi barbari, ovvero come segno di incompiutezza intellettuale. Semmai l’analisi delle tantissime fonti che lo storico va facendo rivela non solo la razionalità ma anche un’inquietante ragionevolezza, per una parte dei protagonisti di quel tempo, nella scelta del ricorso alle armi. E se l’ubriacatura nazionalista ebbe in non pochi casi il sopravvento, salvo poi in parte doversene ravvedere, non di meno l’idea di nazione come fatto compiuto trovò nelle trincee, ben più che nelle officine, un’opportunità che le élite liberali non avrebbero altrimenti mai potuto offrirle.
Non è un caso, quindi, se a confronto armato terminato, ad impossessarsi efficacemente e durevolmente di questo risultato, trasformato per l’appunto in «mito», sarebbero poi stati i movimenti di mobilitazione di massa che, dalla traduzione del conflitto politico in prosecuzione permanente di quello bellico, trassero buona parte delle loro fortune. La rilettura del volume ci porta quindi verso nuovi orizzonti di riflessione. Dinanzi al rifiuto nei confronti delle grandi ricostruzioni, che è venuto affermandosi in questi anni, laddove queste ultime sono declinate poiché denunciate come inefficaci da una storiografia che fatica a liberarsi dall’abbraccio mortale con l’ipertrofia della storia personale e individuale, il bisogno di una autobiografia di massa torna a prendere consistenza.

Dal dettaglio al globale

Isnenghi denuncia, ad esempio, il rischio di quella che chiama una «storiografia a chilometro zero», dove il localismo si sposa all’incapacità – o all’indisponibilità – ad una visione d’insieme. Le celebrazioni che l’Italia si appresta a fare del centenario rischiano infatti di ridursi al rimando enfatico e acritico al «sacrificio». Questo procedimento è consono allo spirito del tempo che stiamo vivendo, dove l’enfatizzazione e l’apologia dello spazio personale contrasta con il bisogno di trovare dei comuni denominatori intersoggettivi.
Lo specchio rovesciato della globalizzazione si traduce nella chiusura mentale verso i grandi trend, caratterizzati, secondo un certo comune sentire, dall’impossibilità di essere raccontati e valutati criticamente. La descrizione e la comprensione della Grande guerra diventano così il campo di verifica di logiche che rinviano immediatamente all’oggi.
L’intero volume ruota intorno alla lettura critica e comparata dell’infinito corpo letterario che il conflitto del 1915-1918 ci consegna. Una guerra non solo di pallottole ma anche di carta. Una guerra a più livelli, che viene restituita ai suoi stessi protagonisti non dall’esperienza materiale in quanto tale, e dalla sua successiva memoria, bensì dalla traslazione eroicizzante o demoniaca che di essa viene sedimentata nella coscienza degli italiani. Il trait d’union è la dimensione, al contempo iniziatica e formativa, di un’impresa collettiva dove, per la prima volta, sotto il paradigma della rigenerazione, si formula un patto di appartenenza che lega l’individuo alla comunità nazionale.
Il ruolo degli intellettuali è, da questo punto di vista, strategico. Leggerlo come il solo prodotto di una mistificazione è quando di più riduttivo possa essere fatto. Se già la Francia del caso Dreyfus aveva promosso l’informazione al rango di veicolo nella costituzione di una opinione pubblica, il racconto della Grande guerra assume per gli italiani il significato di paradigma di un’appartenenza comune. Quella che deriva dall’identità dettata dagli spazi dello Stato nazionale. Morire per esso indica non solo che ad esso si appartiene ma che esso stesso ci appartiene.
Sulla illusorietà di tale convincimento sarà poi inutile, a conti fatti, sprecare troppe parole, essendo invece il solido terreno di affermazione del fascismo, nell’età della «nazionalizzazione delle masse». Le quali, negli stessi campi di battaglia, avevano già rivelato di temere di potere perdere le loro catene, in mancanza di altri solidi appigli. Un riscontro inquietante, che vale per il passato come per l’immediato presente.