Fu il concerto di Lucio Dalla allo stadio a lanciare il fiorentino Massimo Sestini nella galassia del fotogiornalismo . «Mi si presenta questo ragazzo, vorrebbe fare delle foto, gli cedo il mio pass e lo faccio entrare». La testimonianza è di Massimo Gramigni, uno di Radio Centofiori che quel concerto organizzò, il primo di una lunga serie, nel 1979. Massimo Sestini aveva 16 anni. La stagione «Florence Rock» anni ’80 sarà il suo primo «obiettivo». Destinato ben presto a ramificarsi a tutto campo.

Un fuoriclasse Massimo Sestini. Lady Diana in bikini, la strage di Capaci, le copertine con i vip, la Costa Concordia adagiata su un fianco, i ferri del mestiere nascosti chissà dove, l’impegno quotidiano per i tempi stretti delle redazioni e il Calendario della Polizia. Fra istinto, impegno, divertimento e sfida, il mestiere di Sestini trova un nuovo approdo. Che diventa ancora un punto di vista inedito, quanto legato alla più tragica delle moderne emergenze umanitarie: i migranti. «A fare questo lavoro – dice – si diventa per forza cinici. Come chi lavora tutti i giorni su un’ambulanza. Hai poco tempo per pensare. Devi essere sempre il primo in prima linea. Alla fine una guerra vale l’altra. Un terremoto non fa differenza. Ti ci abitui».

Poi succede qualcosa. E ci si rimette in gioco. Non c’è solo il fatto. Ci sono le persone. Non c’è solo il documento. C’è l’impronta. C’è, svuotato d’ogni retorica, il peso di una vita, una qualunque, non importa da dove arriva o perché arriva, che deve essere salvata. E allora il «cuore» delle inquadrature diventa un altro: il cielo capovolto. «Perché l’emergenza deve salire dal basso, dallo sguardo di chi aspetta di essere tratto in salvo». Una lezione di stile. Di posizionamento (tecnico) e atteggiamento (morale). Un’ottica difficile. Di mezzo c’è il rischio. Non tanto la vita quanto di non essere all’altezza di quella «prospettiva». Di perdere di vista il senso della trasmissione.

Nel 2014 Sestini sale a bordo delle navi della nostra Marina militare impegnata nelle operazioni di soccorso nel Mediterraneo. «Ho provato emozioni che non avevo mai provato prima». Il cinismo che si incrina, vale le straordinarie immagini – quattordici – retroilluminate, di grande formato (cinque metri per tre), affisse all’ingresso del Mandela Forum (per la mostra fiorentina permamente Mediterraneum). E lì, installazione permanente, destinate a restare. «Il diritto alla speranza», questo il titolo, sbuca dagli insiemi e dai particolari, la coralità della tragedia che si cementa negli occhi dei «protagonisti», nel reticolato insostenibile del loro spazio vitale, il barcone alla deriva, accecato dai riverberi del sole e fustigato dai riflessi dorati delle coperte termiche.

Una umanissima discesa agli inferi del dolore contemporaneo. Senza sensazionalismi. Per ritrovare la bussola e calcolare meglio la distanza che ci separa dalle novelle formule sovraniste. Una sequenza che ha l’andamento rapsodico di un giornale di bordo, disperso fra le onde di quella enorme fossa comune che è il Mediterraneo. Una fotografia vissuta dentro, scevra da ogni sovraesposizione retorica come da ogni freddezza numerica.
Una fotografia laica che ha in sé, e sprigiona, un che di miracoloso. Vedi quella che ha fatto il giro del mondo, premiata World Press Photo 2015: centinaia di migranti stipati in un barcone, immortalati dall’alto, i volti stravolti, docili e allucinati, un minuscolo piede che spunta da una coperta, un Corano, una borsa, un giocattolo, centinaia di particolari per altrettante storie. Gli ultimi dannati della terra, l’accoglienza negata, i porti chiusi, la sopravvivenza (quando arriva) che è spesso l’inizio di una nuova fine.