«Sarajevo, nel cuore dell’Europa aveva rappresentato per tutti il sogno di un posto in cui convivevano pacificamente etnie e religioni diverse» racconta Vincenzo Marra, tra i registi (suo l’episodio Il ponte) del film collettivo I ponti di Sarajevo che arriva finalmente in sala da oggi, giovedì 25 giugno  – dopo la presentazione lo scorso anno al festival di Cannes – grazie alla distribuzione del Milano Film Network – stasera a Milano, Perugia, poi Udine, Roma per informazioni sul calendario: www. milanofilmnetwork.it

Tredici film per tredici registi europei che si interrogano su un secolo di storia della città, divenuta un simbolo, a partire dall’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando e di sua moglie, la duchessa di Hohenberg, che causò lo scoppio del primo conflitto mondiale, per arrivare all’assedio (1992-1995) delle milizie serbe, fino al presente. Coordinati dal critico francese, ex direttore dei Cahiers du Cinéma Michel Frodon, intrecciano i loro sguardi sulla città la bosniaca Aida Begic, VladimirPeriši, Kamen Kalev, Sergei Loznitsa, Cristi Puiu, Angela Schanelec, Teresa Villaverde, Marc Recha, Isild Le Besco, Ursula Meier, Jean-Luc Godard, e per l’Italia con Marra, Leonardo Di Costanzo.

«Il tema conduttore era il secolo breve che si apre di fatto a Sarajevo con la Grande Guerra e si chiude con il conflitto nei Balcani», racconta Di Costanzo – che stasera accompagnerà il film in sala a Milano, al cinema Apollo (ore 21.00). Lui ha scelto di raccontare la Prima guerra. «Pensavo che fosse un tema un po’ trascurato. Io, perlomeno, sono cresciuto studiando molto di più la seconda guerra mondiale. Mi sono messo a leggere e ricercare, a ripassare le mie conoscenze scolastiche». Il suo episodio – L’avamposto – è tratto dal racconto La Paura di Federico De Roberto: «Un testo molto bello» dice, che gli è stato suggerito dallo sceneggiatore Maurizio Braucci, e che tratta uno dei temi cardine di quel conflitto: la guerra di trincea e, spiega Di Costanzo, «l’odio degli alti gradi verso i soldati che sono considerati solo carne da macello; un odio di classe venato di nazionalismo». Aggiunge: «È anche il primo grande atto dello Stato italiano che impone di riconoscere ai contadini sperduti della Basilicata o della Calabria l’idea di combattere per la Patria».

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Su quello stesso periodo si concentra anche l’episodio di Kamen Kalev che apre il film: Ma chere nuit, in cui si racconta l’ultima notte dell’erede al trono dell’impero austro-ungarico, mentre Princip, Texte di Angela Schanelec prova a tratteggiare la figura del suo assassino.

Da qui, come in uno specchio, si arriva alla guerra dei Balcani. L’assedio e i bombardamenti iniziati nel ’92 sono spesso evocati solo dalla memoria dei sopravvissuti: in Silence, Mujo di Ursula Meier, passato, presente e futuro si confrontano nello scambio – in un cimitero – fra una donna che ha vissuto la guerra ed un bambino che gioca a pallone, esponente di una delle prime generazioni a non averne memoria in prima persona.

Vincenzo Marra prova invece a raccontare, come dice lui stesso, «Sarajevo lontana da Sarajevo». «In primo luogo perché c’è stata una vera e propria epopea di bosniaci che sono scappati dal conflitto: persone che vivono ancora fuori dalla Bosnia e che continuano a soffrire lontano dalla loro patria. Volevo dare voce alla ferita di questa guerra in modo molto aderente alla realtà: oggi si fa un gran parlare del tema dell’immigrazione e contemporaneamente ci sono tante persone perfettamente integrate che sono scappate dalle guerre».
I protagonisti del suo cortometraggio, interpretati da due attori non professionisti, sono una coppia di bosniaci – lui musulmano, lei cristiana – fuggiti a Roma negli anni del conflitto, che si chiedono se tornare per la prima volta a Sarajevo per il funerale del padre di lui.

«Una storia che durante le mie ricerche si è rivelata molto comune – spiega il regista – è quella di molti rifugiati che scapparono perché erano coppie miste. Prima della guerra erano viste come la normalità, potevano unirsi per amore indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa. Pur di non separarsi, anche pressati dalle stesse famiglie, decisero spesso di scappare».

«Tutti gli episodi sono molto interessanti – dice ancora Leonardo Di Costanzo – Lo spettatore dovrebbe fare lo sforzo di vederli senza aspettarsi una corrispondenza tra l’uno e l’altro, dato che sono il frutto di sensibilità e linguaggi molto diversi tra loro». Come ad esempio la rottura improvvisa di Jean Luc Godard, che nel suo Les ponts des soupirs contrappone alla brutalità della guerra il sublime dell’arte. O il bellissimo episodio del rumeno Cristi Puiu, che non parla direttamente né della prima guerra mondiale né quella dei Balcani. Ma mostrandoci una coppia di sposi che si mettono a letto e parlano prima di dormire, apre uno spiraglio sul seme dell’odio alla radice di quello sterminio che fu la Grande Guerra come del sogno infranto che divise i Balcani e straziò Sarajevo.