Prodotto dall’Obala Art Center di Sarajevo in collaborazione con la francese Cinétévé in occasione del centenario della prima guerra mondiale, Les ponts de Sarajevo è un film collettivo che si compone di tredici episodi, diretti da altrettanti autori, che si confronta, reinventa, ripensa e mette in scena momenti cruciali della storia della città, divenuta simbolo delle tragedie europee ma anche, e soprattutto, presenza viva di un’utopia politica dal cui orizzonte umano, politico e sociale la guerra sia finalmente bandita. Supervisionato da Jean-Michel Frodon, ex direttore dei Cahiers du cinéma nonché critico cinematografico di Le monde, il film si presenta diviso equamente fra momenti che rievocano fatti compresi fra il 1914 e il 1918 e altri relativi all’assedio della città risalente al triennio 1992-1995.

Di tutto rispetto il cast dei nomi aderenti al progetto che comprende Aida Begic, Leonardo Di Costanzo, Jean-Luc Godard, Kamen Kalev, Isild Le Besco, Sergei Loznitsa, Vincenzo Marra, Ursula Meier, Vladimir Perisic, Cristi Puiu, Marc Recha, Angela Schanelec e Teresa Villaverde.

Presentato fuori concorso, il film si rivela, come sempre capita quando si tratta di opere a episodi, un’operazione discontinua che vanta vette assolute e cadute di toni alquanto imbarazzanti. Ed è proprio con l’episodio peggiore che si apre Les ponts de Sarajevo. Diretto da Kamen Kalev, Ma chere nuit tenta di mettere in scena il fantasma delle opposte progettualità politiche che il 28 giugno del 1914, nel giorno di San Vito (Vidovan), opposero Francesco Ferdinando e il militante di Mlada Bosna, Gavrilo Princip. Pretenzioso e banale nel suo tentativo di ricostruzione storica e psicologica, cede il passo all’episodio di Perisic, Our Shadow’s Will, anche questo un tentativo di radiografare il progetto politico dei responsabili dell’attentato.

Con L’avamposto diretto da Leonardo Di Costanzo, Les ponts de Sarajevo tocca invece uno dei momenti più alti e convincenti. Tutto chiuso in una caverna, il film presenta un pugno di soldati italiani assediato dal fuoco dei cecchini austriaci. Uscire allo scoperto e spezzare il fuoco nemico equivale a una condanna a morte. In un intreccio di dialetti e accenti, confrontato con l’orrore di ordini assurdi dei quali il regista riesce anche a rendere evidente la logica militare, il film è un crudo assedio senza speranza. Diretto con una precisione e potenza che non può non evocare il nome di Francesco Rosi, L’avamposto ci permette di ritrovare il cinema di Di Costanzo là dove meno ce l’aspettavamo, cosa che ovviamente non fa che aumentare la curiosità per il suo prossimo lungometraggio.

Attesissimo, ovviamente, Jean-Luc Godard che a Sarajevo aveva già dedicato in tempo reale, nel 1993, lo straziante Je vous salue, Sarajevo. Giocando sull’omofonia che in francese photographe vanta con faux/faute (falso/errore), JLG s’interroga sul patto ontologico che lega (semmai lo ha fatto…) il reale alla sua immagine. Riprendendo la parte centrale del film 1993, centrata sul vivere male e il morire bene, Godard compone un ulteriore, drammatico tassello del suo pensiero filmico.

Applaudito a scena aperta, Reveillon, l’esilarante episodio di Cristi Puiu, risolto in un unico decadrage-piano sequenza da un albero di natale illuminato a una camera da letto, mette in luce tutte le contraddizioni xenofobe europee con il ritmo di una commedia attonita irresistibile. Un’anziana coppia si scambia nel cuore della notte delle opinioni politiche a partire da un libro di storia. Un piccolo miracolo di cinema, assolutamente esilarante. Molto interessanti anche i segmenti firmati da Aida Begic e Angela Schanelec. Agghiacciante quello di Loznitsa che evoca la presenza dei cecchini in città e non privo d’interesse quello diretto da Isild Le Besco (dedicato a Chris Marker). Dolente l’episodio di Marra mentre quello di Recha risulta a tratti sfocato. Deludente, invece, il frammento firmato da Teresa Villaverde.