Filmmaker, video artista e attivista, nei suoi film – come quello che presenta a Rotterdam – Marta Popivoda esplora i rapporti fra Storia e memoria. L’abbiamo raggiunta al telefono insieme alla compagna nel lavoro e nella vita, Ana Vujanovic – che lavora nel campo delle performing arts – co-autrice di Landscapes of Resistance e nipote della protagonista Sonja.

Nel vostro diario che accompagna il racconto di Sonja, la prima volta in cui si menziona la possibilità di fare un film su di lei è il 2007: come è stato il processo di lavorazione in un arco di tempo così lungo?
Marta Popivoda: Nel 2007 ho incontrato Sonja per la prima volta in qualità di fidanzata di Ana. Quando ci siamo conosciute mi sono anche accorta che è una fantastica storyteller, e per questo il mio primo impulso è stato quello di fare un film su di lei. Ma all’epoca ero molto giovane, avevo cominciato da poco a frequentare l’Accademia di cinema di Belgrado, e non mi sentivo ancora abbastanza competente per pensare ad un film all’altezza della storia di Sonja, della sua personalità, del suo impegno politico.

Ana Vujanovic: Negli anni Novanta in Serbia è iniziato un processo di equiparazione di comunismo e nazismo, poi negli anni 2000 due leggi hanno perfino riabilitato i collaborazionisti con il regime nazista, secondo il principio per cui «tutti hanno combattuto per la libertà». Per questo per noi era molto importante raccogliere la testimonianza di Sonja e di suo marito Ivo, lui pure un comunista di vecchia data, anche per comprendere meglio il nostro attivismo attraverso i loro occhi e la loro memoria dell’ascesa del fascismo negli anni ’30.

MP: La formazione marxista di Sonja e Ivo è uno strumento fondamentale per comprendere il momento attuale: non hanno mai perso la loro acutezza nella comprensione di ciò che accadeva intorno a loro.

Nel film si fa «risuonare» il loro attivismo nel presente, sottraendolo alla monumentalizzazione della memoria.
MP: Volevo suscitare negli spettatori la consapevolezza che la resistenza è sempre possibile: la perseveranza e il coraggio di Sonja ci consegnano proprio quest’idea. In un primo momento pensavo che la sua storia fosse sufficiente, ma durante la lavorazione ci siamo rese conto che era fondamentale dichiarare chi stava realizzando questo film: due donne, una coppia queer, attiviste di sinistra, che in qualche modo sono state obbligate a lasciare Belgrado e trasferirsi a Berlino per poter vivere la vita che desideravano.

AV: Anche perché per noi questo non è un film storico, ma sul momento presente: la Storia di cui vogliamo investire il nostro futuro.

A Berlino dite di aver trovato la vostra Heimat, ma allo stesso tempo sottolineate la contraddizione inerente a questo processo: «I rifiuti dello sfruttamento sono stati relegati nei Balcani».
AV: Trasferendoci a Berlino abbiamo trovato la nostra casa, la nostra libertà, abbiamo un figlio che frequenta l’asilo, possiamo vivere del nostro lavoro – che però sono «conquiste liberali». Qui siamo al sicuro e stiamo bene in quanto singole persone, ma siamo anche consapevoli di come la giustizia sociale di luoghi come Berlino sia il prodotto del capitalismo globale. Mentre la Serbia è un paese povero, in fase di transizione, dove tutto quello che è stato costruito con il socialismo è stato smantellato senza costruire niente di nuovo, ma portando avanti solo delle privatizzazioni criminali di qualunque cosa e una disastrosa segregazione di classe. Non si può dimenticare qual è l’origine di questo disastro: viviamo all’interno di questa contraddizione che non possiamo risolvere ma su cui dobbiamo riflettere, e questo film è un modo per farlo.

MP: In Serbia le privatizzazioni sono sempre più estreme, è in corso la distruzione del sistema sanitario, dell’educazione, dell’edilizia popolare. Tornando a Belgrado dopo un po’ di tempo si può osservare la radicalizzazione delle differenze di classe: le Bentley che girano per la strada, il centro tirato a lucido mentre a pochi km di distanza tutto è fatiscente, in tanti vivono per strada… Una cosa che fino agli anni Novanta non esisteva: non avevo mai visto un homeless fino a quando sono stata in viaggio a Parigi. Ora fanno parte della vita quotidiana e dello spazio pubblico.

Come avete lavorato sui paesaggi, e con la rappresentazione sullo schermo di un luogo come Auschwitz?
MP: I racconti di Sonja erano talmente vividi da riuscire a produrre quelle che nel film chiamiamo «immagini verbali», che sullo schermo metto a confronto con i paesaggi in cui sono accadute e che ne sono stati testimoni. Su Auschwitz e la seconda guerra mondiale abbiamo visto decine di film durante la preparazione del documentario: non volevamo usare immagini che già conoscevamo, e quando siamo arrivate al Campo volevo raccogliere le impressioni che suscita visitarlo per la prima volta. Lo abbiamo sempre visto al cinema, ma cosa accade quando si arriva lì, quando si fa esperienza di questo spazio? Fra le mie prime impressioni c’è stata la realizzazione che si trattava di una fabbrica biopolitica, in cui non si sfruttava solamente il lavoro ma gli stessi esseri umani, ridotti a merce. Abbiamo visitato i luoghi connessi alla storia di Sonja che rivelano come Auschwitz non sia solo un monumento totalitario al cui interno nulla era possibile: c’è stata una resistenza, Sonja la racconta nel film – l’organizzazione comunista della rivolta nella parte femminile del campo . Qualcosa di molto potente perché mostra appunto che la resistenza è sempre possibile – una delle idee su cui si regge l’intero film.